IL RICORDO DI DACIA MARAINI «Accompagnami a Sabaudia a prendere le scarpe che ho dimenticato»

IL RICORDO DI DACIA MARAINI «Accompagnami a Sabaudia a prendere le scarpe che ho dimenticato»

di DACIA MARAINI

Molti lo credevano arcigno, perché aveva delle sopracciglia folte che quasi coprivano gli occhi scintillanti. Ma scintillavano di gioia gli occhi di MORAVIA. Era un uomo che amava vivere, amava ridere, amava viaggiare, conversare, passeggiare. Era un uomo che non è mai invecchiato: dentro di sé aveva un bambino che ancora sognava di arrampicarsi sugli alberi, di mangiare frutti proibiti, di correre sulla spiaggia, di fare gli scherzi scemi agli amici, di innamorarsi della maestra. Tanto è vero che ci ha colti tutti di sorpresa quando è morto. Era venuto da me il giorno prima dell’emorragia cerebrale e mi aveva chiesto se lo accompagnavo a Sabaudia a prendere delle scarpe che aveva dimenticato nella casa al mare. Si era presentato tutto festoso, con una primaverile camicia rosa, e sembrava più giovane che mai.

Gli ho detto di sì, naturalmente. E già pregustavo le nostre chiacchierate in macchina, la sua improvvisa voglia di un caffè, la sua foga nello sviscerare i fatti del giorno. Quando il giorno dopo, di prima mattina, Enzo Siciliano mi ha telefonato per strillarmi nella cornetta, come un forsennato: «Alberto è morto! Alberto è morto!», io non gli ho creduto. Come era possibile che l’Alberto che avevo avuto davanti a me la sera prima con la sua bella camicia rosa e il sorriso di un adolescente; quell’Alberto che ogni mattina faceva nuovi progetti per il futuro, che gioiva di una bella giornata, di un bel film, di una buona cena con gli amici, di una passeggiata, di un gelato, di un bel libro, se ne fosse andato così d’improvviso senza un cenno di malattia? Ma conoscendolo, sono stata contenta che sia scomparso in quel modo. La sua morte era in sintonia col suo carattere: rapido, coraggioso, impaziente, razionale, senza sentimentalismi e fronzoli inutili. Così è vissuto – «se dobbiamo fare una cosa, facciamola subito e nel miglior modo possibile» – così è morto. Solo quando ho visto il suo corpo disteso, bianchissimo, le mani intrecciate e ferme sul petto, solo allora ho capito che era vero: se n’era andato e per sempre. Le lacrime venivano giù da sole e non riuscivo a fermarle. Se n’era andato l’uomo che avevo tanto amato, con cui avevo fatto tanti bellissimi viaggi, con cui avevo camminato, dormito, letto, discusso, senza mai perdere la fiducia e la stima l’uno per l’altro. Se n’era andato l’uomo che, nonostante la nuova moglie e una nuova vita lontana da me, sapevo amico per sempre, la persona dolce e fidata che mi chiamava ogni mattina per raccontarmi quello che avrebbe fatto, quale film avrebbe visto e dove sarebbe andato a passeggiare. Mentre ero lì a piangere, fissando come una scema la bellissima nave settecentesca dalle cento vele, costruita da un artigiano siciliano, che sembrava pronta a partire per mari estremi, mi sono caduti addosso tutti i ricordi dei viaggi fatti insieme, forse la parte più avventurosa e felice della nostra vita in comune. Mi veniva in mente una giornata a Nuova Delhi, talmente calda – eravamo sui 45 gradi – che non si poteva uscire dalla camera dove giravano forsennate le eliche di due o tre ventilatori. Abbiamo letto tutto il giorno stesi uno accanto all’altro e solo la sera, quando si è alzato un leggero vento rinfrescante, siamo usciti per andare a cenare su una terrazza spaziosa da cui si vedeva tutta la città. Ricordo ancora come Alberto mi ha raccontato di Edward Forster, del suo Passage to India e di come l’Inghilterra avesse assunto come madre un’India a volte cruda, ma anche misteriosa e avvolgente. Forse perche Forster era stato un bambino senza padre e gli piaceva scoprire, in ogni Paese che visitava, una maternità accudente. Mi è venuto in mente la prima volta che, nello Yemen, ci siamo trovati davanti la città di Sana’a – con noi c’era anche Pier Paolo Pasolini – l’emozione provata di fronte a quelle case fatte di fango, eppure tutte dipinte di bianco e di rosa, come fossero coperte di merletti preziosi. E quei soldati fieri che camminavano a piedi scalzi, con la il pugnale jambiya appeso alla cintura. E quei prigionieri che, non essendoci carceri dove rinchiuderli, giravano per la città con una catena attaccata alla caviglia, al fondo della quale rotolava una enorme palla di ferro.

Mi è venuto in mente di quella volta che siamo atterrati a Bangkok, subito prima di una bufera e il vento soffiava così forte che le insegne dei negozi, staccandosi dai muri, volavano tagliando l’aria e i poliziotti ci hanno costretti a rimanere chiusi in albergo per due giorni ascoltando gli strepiti dell’uragano. Anche quella volta abbiamo letto tutto il tempo e parlato di libri. Era una passione comune. Mi è venuto in mente di quell’altra volta che, dopo venti ore di viaggio, a Tokyo, ci aspettava una cena ufficiale e ci siamo addormentati uno appoggiato all’altro, mentre ci servivano dei piatti squisiti che non riuscivamo a gustare. La memoria è come una catenella fatta di tanti anelli intrecciati, che come si dice delle ciliegie, l’una tira l’altra. E così mi è salito alla narici l’odore speziato, di alghe e di cocco, del fiume Congo: il lungo viaggio che da Brazzaville ci ha portati verso nord, cullati da un barcone carico di galline e maiali. Noi dormivamo in una cabina chiamata «di lusso», piena di scarafaggi che io cercavo di fare fuggire col borotalco, perché non volevo ucciderli, e l’acqua usciva dal rubinetto gialla e puzzolente e ai pasti mangiavamo solo cibi in scatola e non avevamo atro da bere che birra. Ma nei lunghi pomeriggi di navigazione, ce ne stavamo sulle sedie a sdraio, sotto una tenda del ponte a osservare il panorama che scorreva placido e così vicino da poterlo toccare allungando un braccio, e il tempo sembrava essersi fermato, stregato e odoroso, mentre l’acqua ci trasportava con un leggero gorgoglio felice. Beh quella è stata un’esperienza strana e dolcissima, indimenticabile.

Ogni tanto il barcone si fermava e dei bambini neri, agili e nudi, si arrampicavano sul ponte per venderci banane e manghi; giovanotti dalle mosse rapide calavano su zattere pericolanti sacchi di riso e di sale. E ricordo l’incontro coi pigmei, il popolo più antico dell’Africa, che ancora vive di caccia: piccoli, robusti e ingenui come bambini, troppo spesso fatti schiavi e sfruttati da vecchi e nuovi coloni. E rammento di come sia Pier Paolo che Alberto che io, abbiamo ballato goffamente, sotto una luna lustra come il coperchio di una pentola, al suono dei loro antichi strumenti a fiato. Ma la catenella continuava a srotolare, anello dopo anello, e ho avuto davanti agli occhi, chiarissimo, quel pomeriggio in cui siamo capitati in mezzo a un funerale, fra le foreste dell’Alto Volta e il morto era stato messo a sedere appoggiato contro un grosso mango. I vivi, accucciati intorno lo interrogavano: chi ti ha ucciso? perché sei morto? E un magrissimo vecchio, seminudo, lo tirava per gli stracci che lo ricoprivano e secondo da che parte pendeva la testa del morto, interpretava per gli altri le risposte. I nostri non erano viaggi turistici. Ci inoltravamo in zone sconosciute, dove non c’erano alberghi a cinque stelle, a volte nemmeno una locanda. Arrivavamo stanchi morti, coperti di polvere, in un villaggio sconosciuto, dove trovavamo asilo in una missione, oppure in una caserma, spesso costretti a tirare fuori le piccole tende che ci portavamo dietro e che piantavamo con gran fatica nella terra dura e rossa come il sangue. Parlavamo con la gente. Cercavamo di incontrare gli scrittori del luogo e ce n’erano sempre, che fossero scrittori di favole, pensatori, sedicenti filosofi, vecchi saggi, raccontatori di storie o vecchie donne semicieche che si portavano dietro con disinvoltura antiche esperienze di viaggio a piedi tra foreste insidiose e fiumi minacciosi. Nei nostri viaggi rischiavamo, non tanto fisicamente, perché allora l’Africa non era pericolosa come oggi, sconquassata com’è dalle guerre, dal terrorismo e dall’Aids. Ma incontrare cultura diverse, confrontarsi con pensieri arcaici dalle radici profonde, capire che il politeismo ha qualcosa di poetico e porta a una maggiore democrazia del pensiero, ma nello stesso tempo è vittima di rituali magici e misteriosi su cui la razionalità non ha presa, era una esperienza complessa, non facile da metabolizzare. Sia Alberto che Pier Paolo non amavano viaggiare nei Paesi cosiddetti civilizzati, dove ogni cosa è prevedibile e scontata, dove il cemento copre la terra e le toglie il respiro. Loro anelavano a spostarsi nel tempo oltre che nello spazio. E l’Africa significava un salto nella preistoria. Forse adesso non è più così, ma negli anni Sessanta lo era ancora. Le terre che percorrevamo per ore e ore, sopra vecchie Land Rover che ogni tanto si sfasciavano e venivano rimesse a posto con pezzi di legno e ferri arrugginiti trovati lungo la strada, non erano mai state coltivate. Su quei deserti, su quelle dune di sabbia che ogni notte si spostavano secondo le spinte dai venti, vedevi gli africani che camminavano lungo le scie lontane di una vibrazione dell’aria che li faceva apparire come fantasmi scaturiti in quel momento dalla terra. Oppure dentro foreste fitte e silenziose, piene di zanzare e formiche avide: ricordo una volta che un operatore di Pier Paolo si è inoltrato fra le erbe alte per riprendere un fiume in piena e ad un certo punto l’abbiamo visto zompare per aria, gettando lontano la macchina da presa, per correre verso il fiume togliendosi di corsa le scarpe, i vestiti e gettarsi a tuffo, nonostante il pericolo dei coccodrilli, nell’acqua limacciosa, perché era stato assalito dalle formiche rosse che possono divorare un uomo in dieci minuti. I nostri erano viaggi poco turistici, pieni di eventi imprevedibili e di trappole, ma anche colmi di allegria e di sorprese singolari. Solo quando la Callas è venuta con noi una volta nel Mali, abbiamo ripiegato un poco verso i percorsi turistici, per paura che lei soffrisse troppo delle nostre avventure. Ma poi abbiamo scoperto che era una donna disponibile e coraggiosa. E quindi abbiamo azzardato di più.

Come quella volta che siamo rimasti fermi con la Land Rover rotta in mezzo a una savana deserta, lontano decine di chilometri dal primo villaggio, non sapendo che fare. Per fortuna, sul fare della sera è passato un monsignore che ci ha accolti nella sua auto e poi nella sua missione. La cosa buffa è che il monsignore non sapeva chi fossero Pasolini e Moravia, ma nemmeno la Callas che di solito tutti conoscevano. E invece ripeteva a memoria tutti i nomi dei calciatori della Roma. Per fortuna che Pier Paolo era un calciatore incallito e ha saputo dargli notizie dei vari giocatori e del portiere della squadra che monsignore stimava molto. La catenella continua a scorrere e quasi sorrido fra me ripensando a quella volta che arrivammo affamati in un villaggio della montagna del Sudan. Avevamo portato abbastanza acqua da bere ma non abbastanza cibo; o per lo meno, disponevamo ancora di qualche scatola di sardine, ma non ne potevamo più di mangiare roba salata e precotta e bramavamo qualcosa di fresco. Così abbiamo chiesto a una contadina se ci procurava del riso, ma non se ne trovava un solo chicco in quel villaggio desolato. Allora della frutta, qualche mango, qualche dattero. Ma no, non c’erano né manghi, né datteri. Un po’ di pane? Nemmeno quello. E allora che cosa avete? Solo delle uova, è stata la risposta.

Felici, abbiamo pensato di cucinarci quella sera una grande frittata. La donna ci ha portato una decina di uova, così piccole e leggere che a stento stavano nelle sue magrissime mani a conca. Le abbiamo pagate e siamo partiti. Ci siamo fermati, abbiamo piantato le tende, abbiamo acceso il fuoco e quando siamo andati per fare la frittata, abbiamo scoperto che le uova erano vuote. Non so come avessero fatto a svuotarle. Non c’erano buchi sul guscio, fatto sta che dentro, al posto del tuorlo e dell’albume, c’era solo un po’ di sabbia, tanto per dare loro un peso. Magie dell’Africa nera. Tutti questi ricordi mi sono caduti addosso mentre piangevo al suo capezzale. E con dolore ho capito che da quel momento avrei dovuto accontentarmi proprio di quelle memorie, rinunciando ad ascoltare la sua voce, rinunciando a vederlo muoversi, sorridere, commentare libri, chiedere un caffè. Per fortuna la mia memoria è fertile, e basta qualche goccia d’acqua per fare nascere e crescere delle piante robuste. Una pianticella è venuta fuori in forma di poesia e ve la propongo come testimonianza di un affetto che non muore con la morte.

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