di Umberto Eco
Curioso personaggio, Saramago. Aveva ottantasette anni e (diceva lui) qualche acciacco – aveva già vinto il Nobel, distinzione che gli avrebbe permesso di non produrre più nulla perché tanto nel pantheon c’era entrato
in ogni caso (il tignosissimo Harold Bloom lo aveva definito «il romanziere maggiormente dotato di talento ancora in vita... uno degli ultimi titani di un genere letterario in via di estinzione») – ed eccolo tenere un blog dove se la prendeva un po’ con tutti, attirandosi polemiche e scomuniche da molte parti – più spesso non perché dicesse cose che non avrebbe dovuto dire, ma perché non perdeva tempo a misurare i termini – e forse lo faceva proprio apposta. Ma come, lui? Lui che curava la punteggiatura al punto da farla sparire, che
nella sua critica morale e sociale non prendeva mai il problema di petto ma poeticamente lo aggirava nei modi del fantastico e dell’allegorico, così che il suo lettore (pur sospettando che de te fabula narratur) doveva metterci del proprio per capire dove l’apologo andava a parare; lui che − come nel suo Cecità − faceva viaggiare il lettore in una nebbia lattea in cui nemmeno i nomi propri, di cui era assai parco, davano un segnale chiaramente riconoscibile; lui che in Saggio sulla lucidità faceva una scelta politica decisa in base ad enigmatiche schede bianche? E questo scrittore fantasioso e metaforico ci veniva a dire con nonchalance
che Bush era di un'ignoranza abissale, espressione verbale confusa perennemente attratta dall’irresistibile tentazione dello sproposito, cow boy che aveva confuso il mondo con una mandria di buoi, che non sapevamo neppure se pensasse (nel senso nobile della parola), robot mal programmato, che costantemente confondeva i messaggi che aveva registrati dentro, bugiardo compulsivo, corifeo di tutti gli altri bugiardi
che lo applaudivano e servivano negli ultimi anni? E questo delicato tessitore di parabole usava parole che non lasciavano adito a dubbi quando definiva il proprietario della casa editrice che lo pubblicava? E questo
ateo manifesto, per cui Dio era «il silenzio dell’universo e l’uomo il grido che dà senso a questo silenzio», rimetteva in scena Dio pur di chiedersi che cosa pensasse di Ratzinger? E, militante comunista (tenacemente) si metteva a gridare che «la sinistra non ha la più schifosa idea del mondo in cui vive», e per giunta si lamentava di non aver avuto riscontro (che so, un’espulsione, una scomunica almeno)? E rischiava l’accusa di antisemitismo per aver criticato la politica del governo di Israele semplicemente dimenticandosi, nella sua adirata partecipazione alle sventure palestinesi, di ricordare – come una equilibrata analisi avrebbe voluto – che c’era qualcuno che negava il diritto all’esistenza di Israele? Ma nessuno teneva conto che quando parlava di Israele, Saramago pensasse a Iahvé, «dio astioso e feroce», e in questo senso non era più antisemita di quanto non fosse antiariano e certamente anticristiano, dato che per ogni religione cercava di regolare i propri conti con Dio – che evidentemente, si chiami come si chiama in varie lingue, gli stava sulle scatole. E avere Dio sulle scatole era certamente motivo di ira furibonda contro tutti coloro che se ne facevano usbergo.
Se avesse tenuto conto sempre dei pro e dei contro, Saramago avrebbe saputo che c’è modo e modo anche nell’invettiva. Cito (a memoria) Borges che citava (forse a memoria) il dottor Johnson che citava il fatto di quel tale che così insultava il proprio avversario: «Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando». E invece Saramago non faceva complimenti, ovvero non le mandava a dire e, nella sua attività di commentatore quotidiano della realtà che lo circondava, si prendeva la rivincita su tutta la vaghezza sinistra delle sue favole. Si è detto dell’ateismo militante di Saramago. In effetti la sua polemica non era contro Dio: una volta ammesso che «la sua eternità è solo quella di un eterno non essere», Saramago avrebbe potuto starsene tranquillo. Il suo astio era verso le religioni (ed è per questo che lo attaccavano da varie parti, negare Dio era concesso a tutti, polemizzare con le religioni metteva in questione le strutture sociali).
Una volta, proprio stimolato da uno degli interventi antireligiosi di Saramago, avevo riflettuto sulla celebre definizione marxiana per cui la religione è l’oppio dei popoli. Ma è vero che le religioni hanno tutte e sempre questa virtus dormitiva? Saramago a più riprese si era scagliato contro le religioni come fomite di conflitto: «Le religioni, tutte, senza eccezione, non serviranno mai per avvicinare e riconciliare gli uomini e, al contrario, sono state e continuano a essere causa di sofferenze inenarrabili, di stragi, di mostruose violenze fisiche e spirituali che costituiscono uno dei più tenebrosi capitoli della misera storia umana» (da la Repubblica, 20 settembre 2001).
Saramago concludeva altrove che «se tutti fossimo atei vivremmo in una società più pacifica». Non sono sicuro che avesse ragione, e sembra che indirettamente gli avesse risposto Papa Ratzinger nella sua enciclica Spe salvi dove diceva che era l’ateismo del XIX e del XX secolo, anche se si era presentato come protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia». Forse Ratzinger pensava a quei senzadio di Lenin e Stalin, ma dimenticava che sulle bandiere naziste stava scritto Gott mit uns (che significa «Dio è con noi»), che falangi di cappellani militari benedicevano i gagliardetti fascisti, che ispirato a principi religiosissimi e sostenuto da Guerriglieri di Cristo Re era stato il massacratore Francisco Franco (a parte i crimini degli avversari, era pur sempre lui che aveva cominciato), che religiosissimi erano i vandeani contro i repubblicani che avevano pure inventato una Dea Ragione, che cattolici e protestanti si erano allegramente massacrati per anni e anni, che sia i crociati che i loro nemici erano stati spinti da motivazioni religiose, che per difendere la religione romana si facevano mangiare i cristiani dai leoni, che per ragioni religiose sono stati accesi molti roghi, che religiosissimi sono i fondamentalisti musulmani, gli attentatori dalle Twin Towers a Charlie Hebdo, Osama e i talebani che bombardavano i Buddha, che per ragioni religiose si oppongono India e Pakistan, e che infine è invocando God bless America che Bush ha invaso l’Irak. Per cui mi veniva da riflettere che forse (se talora la religione è o è stata oppio dei popoli) più spesso ne è stata la cocaina. Credo che anche questa sia stata l’opinione di Saramago e gli regalo la definizione – e la sua responsabilità. Saramago blogger era un arrabbiato. Ma davvero c’era uno iato tra questa pratica di indignazione quotidiana sul transeunte e l’attività di scrittura di «operette morali» valide e per i tempi passati e futuri? Scrivo questo perché sento di avere avuto un’esperienza in comune con l’amico Saramago, ed è quella di scrivere libri (da un lato) e dall’altro di occuparsi di critica di costume su un settimanale. Essendo il secondo tipo di scrittura più chiaro e divulgativo dell’altro, molti mi hanno chiesto se non travasassi nei piccoli pezzi periodici riflessioni più ampie fatte nei libri maggiori. Ma no, rispondo, l’esperienza mi insegna (ma credo insegni a chiunque si trovi in situazione analoga) che è lo scatto di irritazione, lo spunto satirico, la staffilata critica scritta a tambur battente che possa fornire in seguito materiale per una riflessione saggistica o narrativa più distesa. É la scrittura quotidiana che ispira le opere di maggior impegno, non il contrario. Ed ecco, direi che in questi brevi scritti Saramago ha continuato a fare esperienza del mondo così come sciaguratamente è per poi rivederlo a più serena distanza sotto specie di moralità poetica (e talora peggio di quel che è – anche se pare impossibile andare oltre).
Ma poi, era davvero e sempre così adirato questo maestro della filippica e della catilinaria? Mi pare che oltre che alla gente che odiava ci fosse quella che amava, ed ecco i pezzi affettuosi dedicati a Pessoa (non si è portoghesi per niente) o ad Amado, a Fuentes, a Federigo Mayor, a Chico Buarque de Hollanda, che ci ostrano come questo scrittore non sia stato invidioso dei colleghi ed abbia saputo tesserne delle garbate e tenere miniature. Per non dire (ed ecco il ritorno ai grandi temi della sua narrativa) quando dall’analisi della quotidianità sforava sui grandi problemi metafisici, sulla realtà e l’apparenza, sulla natura della speranza, su come siano le cose quando non le stiamo guardando. Allora tornava in scena il Saramago filosofo-narratore, non più arrabbiato ma meditabondo, e incerto. Perciò non ci dispiaceva anche quando s’imbufaliva. Era simpatico.
Tratto dalla Rivista n. 30