Firenze, Milano, Roma, Pienza, Parigi, Siena, Mendrisio e Chambéry ricordano il centenario della nascita di Mario Luzi (1914-2005), che dal 1988 al 2002 è stato presidente del Pen Club Italia. Assieme a Mario Soldati, a Uberto Quintavalle
e a Lucio Lami (una fotografia del 1992 li ritrae insieme,
a Compiano, in occasione del premio letterario omonimo), aveva contribuito alla rinascita del Centro italiano del sodalizio internazionale.
di SEBASTIANO GRASSO
L e foto. Quando si vuole ricordare una persona cara, le foto sono la prima cosa che si va a cercare nei cassetti. Si prendono fra le mani, si fissano. E si cerca qualcosa che sino a quel momento è sfuggita: il particolare di uno sguardo, di un sorriso; l’occhio spazia sul luogo, cerca dietro il foglio una data di riferimento che, spesso, non c’è. I dettagli si sciolgono, accompagnati da un sorriso, un ammiccamento, un deglutire, un serrare di ciglia. E la memoria fa un salto indietro. Firenze 1973. Mario Luzi scrive la prefazione al mio Giuoco della memoria. È un po’ perplesso su una «i»: giuoco o gioco? Quando gli dico che è stato Carlo Bo a suggerire giuoco, Luzi fa l’atto di pensarci su: «Ha ragione Carlino», dice. E «giuoco» resta. Firenze 2004. Ottobre. Qualche giorno prima della ricorrenza dei suoi 90 anni, intervisto Luzi nella sua casa di via Bellariva. Abita al quinto piano. Dallo studiolo usciamo sulla grande terrazza che circonda l’appartamento. Ha un cruccio: da quando alcuni edifici hanno circondato il suo, scorge appena l’Arno. A parte qualche acciacco dovuto all’età, che si mette
a posto con un paio di pillole, il poeta sta bene. Memoria limpidissima
e vitalità straordinaria. Una conversazione di circa tre ore,
fra studio e terrazza, seduti o passeggiando, sino a quando arriva l’ora del pranzo e ci spostiamo in cucina a mangiare qualcosa. Nessun segno di cedimento, di stanchezza. Da invidiare. Luzi è uno di quei meravigliosi vecchi che non hanno età. Della triade Bigongiari-Bo-Luzi è rimasto solo lui. Piero se n’è andato per primo. Poi è stata la volta di Carlino: «Io, però, parlo con tutt’e due. Allora mi domando: sono morto in parte con loro; o loro continuano a vivere in me?», si chiede Luzi. Temeva la morte?
I
l suo approssimarsi non gli faceva paura: «Più ci si avvicina alla vecchiaia e meno ci si pensa, perchè sviluppa con più forza il senso della vita». E gli angeli, Luzi credeva negli angeli? «Sono figure esistenti. E poi la figura dell’ angelo cantore è bellissima. Ci si crede per forza, senza rifletterci. La mente si crea dei ricoveri; e uno, appunto, può essere l’angelo». Rimpianti?
Certo, quello di non avere avuto il Premio Nobel. Riccardo Bacchelli diceva sempre che in ottobre, con le castagne e il vino buono, tornava la sua candidatura. Per Luzi era lo stesso. Il poeta indossa un paio di jeans e una camicia a quadri con le maniche arrotolate sino all’avambraccio. Novant’ anni. Non è stanco di bilanci, manifestazioni, e così via. Luzi è rassegnato. Ha cominciato già nel ‘94, per gli Ottanta. Ci si abitua a tutto, osserva. E poi è una ginnastica per risalire all’adolescenza, quando si avevano grandi velleità e si pensava che il mondo era nostro. E le donne?
Oltre alla madre, tre grandi amori «hanno contribuito a modellare la mia vita e la mia biografia. Due, una volta; uno, attuale». Per l’«attuale» ha scritto alcune poesie, ma la dedica ha solo l’iniziale del nome col punto. Come Ulisse, ama lasciarsi incantare dalle sirene. Lo stimolano, gli riempiono la vita, il letto e gli fanno popolare di versi i fogli di carta bianca. La bellezza femminile ha sempre accompagnato la sua esistenza. Come la scrittura, l’insegnamento, l’amicizia. Proprio per amore, Luzi ha rischiato, nel 1941, di fare un duello con Antonio Delfini. Ritenendosi offeso per una frase galante che il poeta avrebbe detto per una ragazza da lui corteggiata, lo scrittore modenese gli aveva mandato i padrini: Sebastiano Timpanaro ed Eugenio Montale. Da parte sua, Luzi sceglie Romano Bilenchi e Alessandro Parronchi. «Timpanaro, che doveva comunicare la sfida, era strabico – mi racconta Luzi –. Quando cominciò a parlare, non si capiva chi era l’interlocutore al quale si rivolgeva». I padrini stilano un verbale: «La frase attribuita al poeta non è mai stata proferita», scrivono. E nessuno osa dire il contrario.
S. Gr.
(Corriere della Sera)
/Scarica la Rivista 26-27, gennaio-giugno 2014/
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