Saramago: Il primo giorno della creazione

Saramago: Il primo giorno della creazione
Il Premio Nobel nei ricordi della moglie Pilar

 

Cinque anni addietro moriva a Tías (Isole Canarie) lo scrittore e giornalista portoghese José Saramago, 88 anni, cui nel 1998 era stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura. Saramago era socio del Pen Club Italia e il nostro magazine lo ricorda con gli interventi della moglie Pilar del Río e di Umberto Eco, arricchiti da un testo, inedito in Italia, dell’autore di Storia dell’assedio di Lisbona

di PILAR DEL RÍO 

Piove a Lanzarote, evento straordinario che sorprende coloro che visitano l’isola per incontrare il primo giorno della creazione, quando non c’era vegetazione, né vento, ma solo terra, mare e, forse, luce. A José Saramago, in continua tensione creativa, la pioggia sembrava un alleato nel progetto della creazione poiché, mentre scriveva pagine che sarebbero poi diventate romanzi, vedeva crescere davanti a sé un gran verde amico che faceva pensare al valore delle cose, fossero pioggia o libri, due elementi essenziali della sua vita. Eppure, nonostante il piacere della pioggia, per vivere José Saramago scelse un’isola deserta. Troviamo una spiegazione razionale a questo dato, che durò dal 1993 fino alla mattina della sua morte, avvenuta il 18 giugno 2010, quando il caldo cominciava a farsi sentire a Lanzarote e nulla lasciava presagire che avremmo dovuto considerare questa data con l’accanimento dell’adolescente che ricorda la sua prima volta. Prima, molto prima di essere narratore, Saramago compose una poesia intitolata Voto. Nel Viaggio in Portogallo, il libro che gli aprì le porte per potersi dedicare alla scrittura, senza l’urgenza di dover conciliare altri lavori, disse che fra i paesaggi sfolgoranti e le pietre della strada egli sceglieva le pietre. A volte l’ho visto accarezzarne una, grossa, o tenerne in mano altre, in un gesto che sembrava dire che non avrebbero dovuto aspettare millenni per essere riconosciute. 

Nella sua casa di Lanzarote c’è una collezione di pietre provenienti dai cinque continenti, ciascuna con una sua storia: tutte insieme, ora lo sappiamo, fanno la storia di José Saramago, lo scrittore che si chiedeva chi siamo noi, esseri fatti di sogni, frustrazioni e affanni, e dove va l’insieme di persone che chiamiamo umanità. Questo fascino della pietra, della terra secca, dei vulcani: da dove veniva se Saramago era nato tra gli ulivi e amava la pioggia? Come si è visto nella poesia Voto, il suo interesse per la pietra non era una vocazione tardiva. Forse la mancanza delle cose, nel suo ambiente di bambino povero e di giovane privo di mezzi, gli ha fatto amare l’austerità e lo ha predisposto ad apprezzare la bellezza della natura viva, che sia acqua limpida o pietra. Nelle Piccole memorie racconta i primi anni vissuti in famiglia e a scuola, la solitudine del bambino timido e introverso, la sfiducia creata, negli ambienti poveri ma segnati, da chi si interroga e riflette invece di seguire i dettami standard. In questo libro racconta i bagni nel fiume, le notti sotto la luna con i nonni contadini, saggi e analfabeti, le spiegazioni che gli davano sul corso delle stelle e, naturalmente, narra la sua iniziazione alla lettura, vale a dire il momento in cui per poter leggere volle diventare uno scrittore. Poi, anche prima di entrare nel tempo del silenzio in cui lo chiusero le circostanze del lavoro e quelle personali, si dedicò a fare ritratti: Lucernario è certamente l’unica opera in cui l’autobiografia appare in modo evidente, non circoscritta a un solo personaggio ma a tanti, nella triste atmosfera della dittatura di Lisbona, dove la gente ha cercato di sopravvivere nonostante la mancanza di stimoli e della libertà di decidere. A quel punto, nella biografia della prima giovinezza di José non esisteva né la pietra, né la pioggia, solo un intenso bisogno di costruirsi per diventare la persona che poi è stato. Anni dopo ha scritto il poema della pietra come fondamento di qualcosa che intuiva, sebbene non potesse immaginarlo. In quei giorni lavorava come editor, traduceva dal francese opere di grandi autori universali, collaborava a giornali, sperava. 

La rivoluzione del 25 aprile 1974, conosciuta come la Rivoluzione dei Garofani, portò a grandi cambiamenti, non solo nella vita civile, ma anche nella letteratura portoghese. La vitalità della democrazia fece emergere un gruppo di scrittori che raccontarono il loro tempo e la loro storia, rompendo la tradizione di resistenza che aveva caratterizzato la generazione precedente. Ed è da lì, dalla libertà conquistata, che emerge lo scrittore José Saramago, che torna alla narrativa con il romanzo Manuale di pittura e calligrafia, come fosse rinato. Ancora non aveva percorso la terra lusitana per scrivere Viaggio in Portogallo, né aveva raggiunto un proprio stile letterario, ma i materiali erano già riuniti, tutto pronto affinché la storia corresse. Aveva sessant’anni, un’età in cui molte persone pensano di ritirarsi, di non iniziare un viaggio. Poi fece il giusto passo per raggiungere il luogo in cui lo attendevano i suoi lettori di tutto il mondo. Nello scrivere Una terra chiamata Alentejo nacque la voce inconfondibile che poteva provenire solo da una forza tellurica, da un interno abitato. Descrivere «la storia di quelli senza storia» non era facile, ma Saramago affrontò il lavoro con passione e compassione, dando vita e nome ai dimenticati. Più tardi apparve Memoriale del convento, dove i lavoratori dell’Opera del convento di Mafra trasportano le pietre come fossero Titani – e forse lo erano – e infine uscì La zattera di pietra, presagio di quello che sarebbe stata la sua vita futura su un’isola. 

Il percorso del pensatore, che aveva dei dubbi come norma, seguì una linea che sembra disegnata dagli architetti più esperti; quando ha descritto la navigazione attraverso l’Oceano che tocca la Penisola Iberica, trasformata in zattera di pietra, non sapeva che stava anticipando il sogno che avrebbe realizzato più tardi, portando la sua residenza a Lanzarote. Nell’isola oceanica, a metà strada tra Africa, Europa e America, consolidò il suo contatto con le pietre vulcaniche, i crateri e la terra d’origine. Nella sua casa di Tías, dalla finestra dello studio dove lavorava ogni giorno, guardava cadere la rara pioggia che a volte benedice i deserti e ascoltava il crescere delle piante. Entrambe le cose, l’acqua e il verde miracolo nell’aridità di tutti i giorni, erano l’apoteosi della vita. Così viveva e preparava un intervento che avrebbe fatto in Italia: «Dalla statua alla pietra». L'incontro avvenne nel 1998 a Torino, con un gruppo di docenti e studenti di varie Facoltà dell'ateneo. Mentre gli Accademici svedesi decidevano di assegnargli quell’anno il premio Nobel per la Letteratura, lo scrittore, estraneo alle decisioni, scorreva i suoi libri uno ad uno, utilizzando la pietra come filo conduttore, la pietra-fondamento del poema, sino alla nudità metaforica percepita negli ultimi libri, attraversando quello che definì «il periodo della statua», quando non trovò più nulla da descrivere: né un pensiero, né un oggetto; così come l’etica nella sua forma e la forma come vita. A Torino, l’autore condivise con il pubblico che qualcosa stava cambiando nel suo modo di affrontare la scrittura, tanto che il punto di fuga gli lasciava solo spazio per soffermarsi sull’idea centrale. Fu così che scoprì che non gli importava molto descrivere la statua e la pietra di cui è fatta, così i suoi libri si decantavano, diventavano sempre più semplici, senza che ciò significasse perdere la bellezza del tempo letterario, quando credeva che per spiegarsi dovesse raccontare ciò che vedeva e, soprattutto, ciò che era nascosto nelle pieghe della statua. 

Non si trattava di rinunciare, in assoluto, a quello che aveva scritto; notava semplicemente che, in modo naturale, senza programmarlo – come quando il poeta Antonio Machado diceva che ci si fa strada camminando – tracciò un itinerario mentre scriveva, e il cammino che stava percorrendo lo portava verso il luogo delle domande di cui egli cercava le risposte: che cosa accadrebbe se tutti fossimo ciechi, se tutti andassimo alle urne e votassimo in bianco, se la morte smettesse di uccidere. Così nacque Cecità, poi Saggio sulla lucidità, quindi Le intermittenze della morte. E ancora Tutti i nomi, L’uomo duplicato, La caverna, fra gli altri. Sono saggi − i cui personaggi descrivono sia i dubbi dell’autore che quelli dei molti lettori − che ampliavano i propri limiti quando entravano nell’immaginario dello scrittore portoghese. Mesi prima di morire, José Saramago scrisse Caino, un romanzo sorprendente che racconta, da una prospettiva particolare, aspetti fondamentali della Bibbia, la cui fine potrebbe coincidere con la traiettoria di Saramago scrittore: «La storia è finita, non c’è più nulla da raccontare». In quel libro espose in modo chiaro le preoccupazioni già presenti ne Il vangelo secondo Gesù Cristo: si chiedeva perché Dio amasse tanto il sangue. Caino inizia con la morte di Abele e finisce con il diluvio universale, momento-chiave in cui Dio decide che l’essere umano non è degno della vita e spazza via il mondo, salvando solo Noè e la sua famiglia. 

Allora José risponde con un libro al Libro: se ciò accade per mantenere l’immagine dell'uomo a somiglianza di questo Dio, non vale la pena che la specie umana continui ad esistere; l’invenzione biblica di Noè è annullata da un’altra invenzione in cui la fede è sostituita dalla ragione e dalla compassione; caratteristiche, queste sì, che definiscono uomini e donne che abitano il pianeta. Sfidando il Dio descritto nella Bibbia, José Saramago arriva al cuore della pietra. Ora, cinque anni dopo la sua morte, i lettori possono vedere la traiettoria letteraria e vitale di Saramago, l’uomo che ha scritto nelle Piccole memorie: «Lasciati accompagnare dal bambino che eri», e che si presenta come uno scrittore senza programmi. Ha mantenuto una ricerca coerente, chiaramente visibile attraverso le diverse stagioni della sua vita, senza mai abbandonare l’infanzia. Si adattò a semplici spiegazioni; tutta la sua opera è una profonda ricerca sull’essere umano e sui miti della libertà di pensiero e della capacità creativa. I suoi romanzi sono meditazioni su errori, responsabilità e potere: dal Lucernario fino a Caino, o meglio, dal primo articolo fino ad Alabarde, alabarde, il romanzo incompiuto, pubblicato recentemente, ultima domanda di un uomo che sa che sta morendo, ma che non rinuncia a capire le responsabilità personali; noi consentiamo che l’industria e il traffico di armi abbiano la dimensione che hanno e che, per azioni od omissioni, ci corrompano tutti. Il potere sulle anime in Caino, il potere sui corpi in Alabarde, alabarde e al centro, sofferente, l’insieme delle persone che noi chiamiamo umanità, che si rinnova come si rinnovano le onde del mare, sempre con le stesse paure, dolori e desideri di felicità. Sempre con la stessa fragilità. Siamo ciechi? Siamo ciechi perché guardando non vediamo? Cinque anni dopo la sua morte, i libri di Saramago spiegano il mondo dinamico in cui viviamo. Letterari e lucidi, sono libri-case dove possiamo abitare. «Questo libro ha una persona dentro», ha detto José, riferendosi al suo autore. E con lui, dubbi, perplessità, insonnia, ansia e anche l’intima soddisfazione che si ha nel vedere come il lavoro cresca assieme all’essere umano che ha cominciato a scrivere per capire e per essere amato. I libri sono abitati anche dai lettori che leggono per non essere soli, per essere rispettati e per comprendere assieme all’autore. Infine, un libro – sia di fantasia, saggio o poesia – è un impegno fra due persone, una coppia che sogna di essere felice. Forse nel leggere Saramago, così vivo, i lettori sentono qualche brivido. Non importa: accade sempre nei momenti d’amore e leggere è uno di questi. Continua a piovere su Lanzarote mentre ricordiamo José. È bello, ma anche triste. La nostalgia non è luminosa, ma nel giardino della casa dello scrittore la pietra, ah! la pietra, splende come la più bella metafora di una letteratura compiuta, viva e indistruttibile. P.d.R. ©

(Traduzione di Gabriele Morelli)

Scarica la Rivista 30, gennaio-marzo 2015

 

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