di ERKUT TOKMAN
Come vive la censura un intellettuale come Orhan Pamuk, 63 anni appena compiuti, premio Nobel per la letteratura nel 2006? Lo incontriamo nella sua casa di Istanbul. Libertà di espressione e rispetto per gli scrittori. Che cosa ne pensa?
Le organizzazioni internazionali dicono che siamo in pessima posizione. Gli scrittori vengono zittiti con insulti e false accuse. Ma vorrei sottolineare che questa situazione non è una prerogativa dell’attuale governo, come si pensa comunemente in Occidente.
È stato sempre Così? Si, per quanto ricordo. Purtroppo sin da quando i partiti laici hanno preso il potere con l’appoggio militare, gli oppositori in genere sono finiti in prigione; i giornalisti, o dietro le sbarre o licenziati. Oggi avviene lo stesso. Speriamo che con le nuove elezioni si cambi rotta.
I suoi libri hanno raggiunto un pubblico eterogeneo. Prima del Nobel era già tradotto in 46 lingue; adesso, in 63 (con 13 milioni di lettori). Nel suo caso si registra una curiosità: ogni Paese apprezza un romanzo diverso. E' vero. Ci sono scrittori come Nabokov di cui tutti leggono Lolita o, come da noi in Turchia, nel caso di Yassar Kemal, Memed il Falco. L’interesse per un libro in particolare, può mettere in ombra gli altri. Un esempio del passato? Scricciolo (1922) di Reshad Nuri Guntekin, che narra le vicende di una maestrina idealista in una Anatolia arretrata. Pur avendo scritto testi di più ampio respiro, è rimasto noto solo per Scricciolo, malgrado si tratti di un libro leggero e melodrammatico.
E nel suo caso? Variano da Paese a Paese. In Turchia, per esempio, i miei libri più popolari per anni sono stati Il mio nome è Rosso e Neve.
In altri Paesi? In Spagna, Istanbul; in Francia, Il Libro nero. In Cina Il mio nome è Rosso ha venduto 500 mila copie. Negli Stati Uniti al primo posto c’è Neve che in Inghilterra, invece, è al secondo. Vede? Abbiamo parlato di quattro diversi libri ed ogni Paese ha il suo preferito.
Quali i fattori determinanti? Probabilmente l’anno di pubblicazione, i premi ricevuti, la congiuntura politica. Allora si può capire perché Neve è piaciuto ai lettori americani, interessati all’Islam e alle sue manifestazioni politiche, al suo lato violento, visto il continuo coinvolgimento degli Usa nei conflitti in Medio Oriente.
E in Cina? Anche se numericamente ci sono molti più musulmani che negli Stati Uniti, manca l’interesse per le problematiche che attraggono gli americani. I cinesi sono più legati a tradizione e modernità, arte e cambiamenti della cultura tradizionale, che rintracciano, appunto, ne Il mio nome è Rosso.
Diceva di Istanbul... Piace agli spagnoli perché ricorda loro una Barcellona modernizzata con notevole ritardo. Insomma, i lettori di ogni Paese vedono i miei libri a seconda delle proprie problematiche.
Ho letto che l’ultimo libro, La stranezza che ho nella testa uscito in Turchia cinque mesi addietro ha venduto 250 mila copie, superando ogni record ed è in cima alle classifiche (in uscita in Italia da Einaudi nella seconda metà dell’autunno). Proprio così, quanto Il mio nome è Rosso in vent’anni.
Ad eccezione de Il mio nome è Rosso, si può dire che prima lei scriveva per lo più romanzi storici e adesso preferisce l’attualità, o è un fatto casuale? Che cosa determina l’orientamento fra gli uni e gli altri? Con gli anni, la voglia di scrivere sul passato forse lascia posto all’interesse per il proprio tempo.
Mi riferivo al suo ultimo romanzo La stranezza che ho nella testa, una sorta di flashback sui cambiamenti degli ultimi quarant’anni a Istanbul. Narro la vita di un ambulante, un certo Mevlut, che vende boza; il suo ambiente familiare, l’esodo dall’Anatolia ad Istanbul negli anni ’60. E, attorno a lui, tanta gente povera che costruisce casupole abusive, a mani nude, in periferia; proprietari di piccole botteghe. Un’umanità che cerca di sopravvivere alla vita di strada.
Si avverte una sorta di «pignoleria sociologica», soprattutto dove lei descrive i cambiamenti cronologici e sociopolitici avvenuti in un quarantennio. Come sono nate queste pagine? Non era mia intenzione scrivere un libro social-realista. Altri scrittori probabilmente descrivono fedelmente la vita di persone in difficoltà, ma talvolta ottengono un risultato semplicistico ed esiti melodrammatici.
La città si evolve. Anche il protagonista? Mevlut, sì. Il mio problema non era solo di descrivere ogni suo aspetto, ma anche di mostrare che la sua sopravvivenza non è il risultato di un paradosso. Anche nei momenti più bui ci sono forme di ricchezza dell’esistenza come ironia e comicità. Proprio qui si incrociano il lato romantico dell’immaginazione e la scrittura «storica».
Lei è un romanziere ricercatore? Certamente. Per Il mio nome è Rosso ho studiato antiche miniature, vecchi manoscritti istoriati. Invece per Neve sono andato a vivere per un periodo a Kars, città situata a Nord-Est dell’Anatolia, dove c’è sempre neve.
E per La stranezza che ho nella testa? Lunghe osservazioni e numerosi appunti. Non è un romanzo storico, ma ha comunque una valenza storica in quanto ho cercato di ricreare, dall’interno, com’è cambiata la nostra Capitale in poco meno di mezzo secolo. Ho scandagliato vicoli, stradine, quartieri, osservando rivenditori di yogurt, di pilaf, la gente che lavora nei buffet o nei chioschi, i camerieri. Ho avuto contatti con ambulanti che portano teglie di cibo cucinato in casa per venderlo dall’altra parte della cittaÌ�, con proprietari di trattorie che fanno i camerieri in altri locali, con titolari di saloni per matrimoni. Parlando con loro ho imparato ad essere rispettoso della vita dei protagonisti dei miei libri, addirittura più umile.
Si può dire che questo tipo di ricerca l’ha cambiata? In un certo senso, sì. Dico sempre che un romanziere deve raccontare le storie altrui come se le avessero scritte gli stessi protagonisti o raccontare le proprie come se fossero d’altri.
Che cosa la spinge a scrivere? Da un lato, la forza dell’immaginazione (rapportando futuro e passato, si inventa un altro mondo, uno spazio poetico) e dall’altro, più concretamente, la realtà vista attraverso la sociologia e l’antropologia.
Indagine enciclopedica? Perché no? Nelle mie ricerche prendo in considerazione ogni aspetto di un soggetto o argomento (anche il più piccolo e meno importante) e la mia mente diventa come un albero sul quale crescono nuove ramificazioni.
Da qualche parte ho letto che, fin dall’infanzia, lei e suo fratello maggiore amavate leggere le enciclopedie... Verissimo. Accendeva l’immaginazione. Paesaggi romantici e poesia mi spronavano ad essere più realistico. Forse il momento più bello dello scrivere è quello in cui uso l’immaginazione per creare una parte razionale, una cronaca, per analizzare, elencare o ordinare i vari elementi.
Lato romantico dell’immaginazione. Ispirato dalla poesia? E dalla pittura. Mi aiutano a dare più forza alla routine della vita quotidiana, alle sue discrepanze, ai momenti meno felici.
In una intervista, lei raccontava di lunghe passeggiate con lo scrittore Yassar Kemal, recentemente scomparso. Che cosa ricorda? Kemal aveva 30 anni più di me. Mi telefonò dopo avere letto qualche pagina dei miei libri usciti in Francia, da Gallimard, che era il suo stesso editore. Da lì, la nostra amicizia. Ci si incontrava spesso. Si parlava di politica, letteratura, editoria, scambiandoci notizie ed anche pettegolezzi.
E sulla vostra esperienza di scrittori? Anche. Se usare la penna o la macchina da scrivere, per quante ore al giorno riuscivamo a lavorare e dove. Lui, per esempio, andava ad Abant, un lago nei pressi di Ankara: scriveva chiuso in albergo o anche a casa.
L’argomento che amava ascoltare di più?
Ciò che riguardava la sua adolescenza ad Adana, città con sbocco sul Mediterraneo. Ma anche gli episodi che coinvolgevano i suoi numerosi amici quando io non ero ancora nato o ero ragazzino. Invidiavo la sua capacità di tenere rapporti con parenti e amici, dopo il trasferimento ad Istanbul, il suo senso dell’umorismo.
Parlavate anche di politica? Spesso, ma solo per inveire contro i politicanti.
Dopo il Nobel, a che cosa può aspirare uno scrittore? Devo ultimare una decina di libri già in cantiere, di cui ho pronte tantissime annotazioni, raccolte meticolosamente. In più mi piacerebbe trovare qualcosa che mi permetta di coniugare insieme scrittura e pittura. La tavolozza mi ha attirato sin dall’adolescenza. Lei ha davanti un pittore morto che da qualche anno tenta di risuscitare.
Questa intervista esce sul magazine del Pen Italia. Che legami ha con lo Stivale?
Mi incanta. Visito tutte le Biennali di Venezia. Nel 2009 ho anche insegnato per un mese Letteratura comparata a Ca’ Foscari. Ho ricordi bellissimi. Svegliarmi presto al mattino, prendere la gondola per andare all’ateneo... Ero felice. Anche se i gondolieri erano sempre di umore nero. Mi guardavano storto perché trovavano insufficienti i pochi euro che pagavo per raggiungere la sponda opposta del canale. Prendere il caffè in un bar, prima di entrare all’università, mi faceva altrettanto felice. Lo storico palazzo di Ca’ Foscari, con i grandi saloni pieni di specchi, Venezia stessa e i miei studenti erano speciali. Durante le lezioni, così come alla Colombia University, parlavo dei miei romanzi preferiti. Per esempio, di Henry James e delle sue giornate veneziane.
Altre città, oltre Venezia? Ho un amico in Germania con cui ogni anno, in primavera, vengo in Italia per visitare una nuova città. Mi sento vicinissimo alla cultura italiana, soprattutto a quella del Rinascimento. Per questo amo Firenze.
La sua amicizia con Eco? Un grande scrittore. E' venuto a trovarmi nella mia casa di Istanbul. Nello studio s’è seduto sulla poltrona di mio padre; gliel’ho detto e lui mi ha risposto, ridendo: «Ho anch’io l’età di tuo padre». E.T. (Traduzione di Guvenc Ayhan)
/Scarica la Rivista 31, aprile-giugno 2015/