Dopo la Lubjanka, il carcere e il lager, nel 1945 viene amnistiata da Stalin. La scrittrice vive in Italia dall'82
A 97 anni, la scrittrice italo-russa Julia Dobrovolskaja ha ottenuto dallo Stato italiano il vitalizio di 24mila euro all'anno, grazie alla «Legge Bacchelli» (dal nome del suo ispiratore, lo scrittore Riccardo Bacchelli, che non fece in tempo ad usufruirne perché morì nell’ottobre 1985, due mesi dopo la sua approvazione). Il fondo, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, è destinato ai cittadini illustri che versano in stato di particolare necessità e che hanno acquisito «chiara fama» nei campi di letteratura, arte, scienze, economia. Fra i letterati che sinora ne hanno beneficiato, Anna Maria Ortese, Aldo Braibanti, Gavino Ledda, Alda Merini, Guido Ceronetti, Saverio Strati. La richiesta, avanzata qualche anno addietro dal Pen Club Italia – di cui la scrittrice è socia – era stata seguita dai senatori Diana De Feo (Forza Italia) e Mauro Ceruti (Ds).
di Olga Strada
Talvolta le vite di alcune persone risultano più avventurose e avvincenti di quelle frutto della fantasia degli scrittori. Quella di Julia Dobrovolskaja appartiene a questa schiera. Essa attraversa territori diversi e abbraccia un secolo, definito da alcuni storici come «breve», ma così denso e ricco di trasformazioni da lasciare stupefatti protagonisti e testimoni. Julia nasce in quella che fu la capitale del potente principato di Suzdal’, Nižnij Novgorod, nel 1917, anno in cui la Russia è avvolta nei cupi bagliori della rivoluzione. Negli anni Trenta la sua famiglia si trasferisce a Leningrado, dove la giovane si iscrive alla facoltà di Filologia germanica, studiando sotto la guida del linguista e antropologo russo Vladimir Propp, noto per i suoi studi, tuttora attuali, sulla morfologia della fiaba. Ed ecco che nel 1938 la vicenda biografica, fin qui apparentemente consueta, si impenna e assume accenti leggendari ma non
per questo meno veritieri. Julia impara lo spagnolo in soli quaranta giorni e viene reclutata, come interprete e traduttrice, fra i volontari inviati a partecipare alla Guerra civile spagnola. Nel periodo del «soggiorno» iberico, alle dipendenze del generale Vekov, ha l’opportunità di conoscere intellettuali e icone politiche quali George Orwell, Dolores Ibarruri ed El Campesino. Ci fu chi, in certi ambienti moscoviti, iniziò a supporre che per la figura di Maria in Per chi suona la campana, Hemingway si fosse ispirato proprio alla giovane e bella interprete russa («Aveva zigomi alti, occhi allegri e una bocca regolare con labbra carnose. I suoi capelli, dal colore bruno dorato di un campo di grano bruciato dal sole, erano tagliati cortissimi su tutta la testa come la pelliccia di un castoro»). Benché a liquidare tali illazioni, definendole totalmente infondate, sia stata la stessa Dobrovolskaja, la descrizione dell’eroina di Hemingway (in realtà ad ispirare lo scrittore americano fu la catalana Maria Sans) conferisce un ulteriore alone di fascino alla protagonista del nostro racconto e a quel terribile periodo della storia europea. Rientrata in patria, Julia prosegue all’agenzia di stampa Tass il suo compito di traduttrice da spagnolo, inglese, tedesco e italiano. Questa circostanza, il fatto cioè di conoscere le lingue e di non fluttuare isolata nella bolla della «vita matematicamente perfetta dello Stato Unico», per dirla con Zamjatin, sfociò nel capitolo più tragico e assurdo – se di assurdità si può parlare – della sua biografia: l’arresto subìto nella notte dal 7 all’8 settembre del 1944. Definita «criminale» in pectore, la Dobrovolskaja conosce la dolorosa esperienza delle grigie e tetre segrete della Lubjanka, sede dei servizi segreti sovietici e simbolo per eccellenza del sistema. Nonostante le pressioni psicologiche, gli estenuanti interrogatori – durati vari mesi – nel carcere militare di Lefortovo affinché confessasse crimini contro lo Stato, nulla le fu attribuito se non l’eventuale possibilità che sarebbe stata in grado di commetterli. Fu infatti condannata, in base all’articolo 7 comma 35, a tre anni di colonia penale da scontarsi in un complesso metallurgico alle porte di Mosca. Come in un folle e paradossale gioco di specchi, la «causa» del suo arresto si tramuta, durante il periodo della pena, nell’essere esentata dall’effettuare lavori fisicamente pesanti. La conoscenza dell’inglese la porterà infatti a svolgere mansioni di traduttrice per un ingegnere impiegato in quel reparto. Nel 1945, a seguito della vittoria sul nazismo, Stalin concederà l’amnistia ai reclusi la cui pena fosse inferiore ai tre anni. Da questo momento, la vita di Julia Dobrovolskaja si orienta sempre di più in ambito linguistico, verso la didattica della lingua e della cultura italiana. Negli anni, la sua approfondita conoscenza della lingua di Dante la porta non solo a diventare una delle figure di riferimento per tradurre in russo opere letterarie italiane, ma anche per creare, nel periodo della «guerra fredda», un ponte di comunicazione culturale fra i due Paesi. Sono molte le personalità del mondo artistico, letterario, teatrale e cinematografico che la Dobrovolskaja conosce, frequenta e coinvolge in varie iniziative: da Sciascia a Manzù, da Moravia a Guttuso. Quest’ultimo, intellettuale di partito, fedele sostanzialmente al suo credo, non condivise la scelta di Julia di lasciare l’Urss e, nel 1982, alla vigilia del suo salto in Italia, salutò per l’ultima volta, a Mosca, assieme alla moglie Mimise, l’amica transfuga. «Pur sapendo che vivevo a Milano – ricorda la Dobrovolskaja – non si fece mai sentire. Da traditrice della patria comunista, che ero diventata, per lui avevo smesso di esistere». Julia lascia il Paese grazie al cosiddetto «matrimonio umanitario» con l’amico fraterno Ugo Giussani e da quel momento chiude fermamente e per sempre la porta con la sua terra d’origine. Nel suo vocabolario la parola «ritorno» non è contemplata, del resto imputerà proprio a tale «ritorno al passato» la morte, per le troppe emozioni, della scrittrice e amica Nina Berberova. Il solo legame che manterrà con la sua vita precedente e con gli amici rimasti oltre confine sarà esclusivamente epistolare. L’Italia, dunque, l’accoglie. E anche Marcello Venturi, che alla Dobrovolskaja dedica, nel 1997, il romanzo Via Gor’kij 8, interno 106. Julia insegna Lingua e letteratura russa a Venezia, Trieste e Milano, formando una schiera di futuri slavisti e traduttori. Lo spazio di un articolo risulta insufficiente per raccontare le tante sfaccettature di una donna coraggiosa, generosa e vitale qual è Julia; né il suo impegno, ancora oggi, a rendere nel migliore dei modi un’espressione o una parola russa in italiano e viceversa. Se dobbiamo credere alla locuzione latina nomen omen, nel significato russo del cognome di Julia, Dobrovolskaja, letteralmente «buona volontà», c’è forse l’essenza più intima del suo carattere e del suo destino.