Modiano: La precocità dell'allievo di Raymond Queneau

Modiano: La precocità dell'allievo di Raymond Queneau
Il premio Nobel 2014

di MASSIMO RAFFAELI  

Occorrono troppe vite per farne una, disse un grande poeta del secolo scorso: potrebbe essere questa l’insegna, ma anche la dichiarazione di poetica straziata e mai rinnegata, che sovraintende all’opera di Patrick Modiano, uno scrittore (si farebbe fatica a definirlo romanziere, tout court) che ha fatto coincidere l’insieme della sua opera con la costruzione e, per certi versi, con la forzata invenzione della propria biografia. E infatti nel suo libro più dichiaratamente personale, Pedigree (2005), egli si è  scusato in via preventiva con i lettori o  forse ha chiesto ad essi una complicità ammettendo di avere citato nel testo troppi nomi, con pignoleria e accanimento, per non doversi riconoscere alla fine come un cane bastardo e cioè senza un vero nome. Il cruccio, un’ombra e insieme un vuoto di documenti e di testimonianze, è per lui l’assenza da cui paradossalmente si squaderna, dolente e sinistro, il destino di qualunque individuo e il suo prima di ogni altro. Nato nei sobborghi di Parigi nell’estate del ’45, venti giorni prima che la città fosse liberata dal giogo nazista, la sua infanzia non conosce il sole del dopoguerra (di cui J’ecris ton nom, Liberté, il verso celeberrimo di Paul Eluard sarebbe stato a lungo l’emblema) ma subisce una condizione di costitutiva e presto consapevole orfanità: il padre è un ebreo di origini italiane (vittima dei nazisti ma ambiguamente sottrattosi alla deportazione), la madre è una attrice belga, una donna fatua, sfuggente, comunque assente. Per ulteriore paradosso, saranno entrambi i numi tutelari della bibliografia del figlio abbandonato, una bibliografia fitta e impervia che ha il suo punto d’onore, e la massima posta, nella ricerca di una origine, di un punto fermo che la scampi al presente, ora per allora, dalla centrifuga di un vuoto che rimanda di continuo a se stesso: è la deriva di un destino che ancora non sa, per assenza dei mandatari come dei destinatari, di essere tale. Di tale paria innominato (mentre si annunciano il ’68 e una vicenda di ribellione antiedipica che non può toccare più di tanto lo spiantato Patrick) suo mentore è l’ex professore di geometria al Liceo Henri IV,  Raymond Queneau, mago buono di tutti i Patafisici e già insigne sperimentatore di tutti i possibili linguistici e stilistici. Ciò spiega la precocità dell’esordio di Modiano ma chiarisce, altrettanto, la natura figurata e anzi mascherata (qualcuno direbbe ora da docufiction e nel frattempo da pastiche postmodernista) del suo esordio, La Place de l’Etoile, purtroppo mai tradotto in italiano, il quale mescola verità storica e pura verosimiglianza fissando lo spazio e il tempo, la Parigi della Occupazione e del collaborazionismo, di un prosieguo che per lui sarà infatti inderogabile. Qui Modiano, nei modi di un romanzo di formazione predatato, associa figure del tutto inventate all’incombenza, non ancora resa esplicita, degli spettri familiari e specialmente alla lezione di scrittori verso cui nutrirà una costanze ambivalenza di attrazione e repulsione, gli scherani e delatori di Je suis partout ma anche, non meno colpevoli e immondi, i Brasillach, i Rebatet e i Céline. Seguono al primo romanzo non pochi addendi (fra cui Villa Triste, del ’75, Via delle Botteghe Oscure del ’78) per tacere di una parallela attività di sceneggiatore cinematografico che culmina nel film di Louis Malle, Cognome e nome: Lacombe Lucien, del 1974, scambiato da taluni per un omaggio al nascente revisionismo storico mentre getta, viceversa, una luce necessaria e imprevista sul periodo più tetro e fino a quel momento rimosso, il regime di Vichy, della Francia repubblicana. Ma si potrebbe dire che Modiano diventa sul serio Modiano soltanto nel decennio successivo quando, rigettata l’obbedienza all’inventiva ludica e sempre travisata del maestro Queneau, egli va diritto verso la realtà (beninteso la sua realtà di orfano, deprivato di nome e destino) per il tramite di documenti e tracce residue che si dà il compito di decifrare, orientando il lettore dopo averle scampate all’oblìo o alla noia sbadata dei posteri. Per questo i libri più esatti e più suoi (come fossero partiture meno impegnative ma gemelle del quasi coetaneo Winfried G. Sebald)  sono quelli meno ambiziosi, vale a dire fredde ricomposizioni di indizi e di tracce biografiche, censimenti di esistenze anonime e inghiottite dalla storia, riascolto di voci ammutolite. In tal caso, che torni all’autobiografia o si volga agli archivi del secolo importa relativamente meno perché il suo compito è uno solo e cioé rinvenire il percorso che fra il ’40 e il ’44 ha potuto inabissare migliaia e migliaia di individui da Parigi-Drancy ad Auschwitz. Questo è il caso del suo libro più semplice e compiuto, Dora Bruder (Guanda 2004), e di quanti per antefatto o per prosieguo gli si aggregano in forma di costellazione: fra gli altri Sconosciute (Einaudi 2004),  Bijou ( ivi 2005) e Nel caffè della gioventù perduta (ivi 2010) ancora una volta doppiato in italiano da una interprete davvero consanguinea, Irene Babboni. È probabile che la fedeltà ad un’ispirazione in lui scaturita una volta per sempre, l’ossessiva rimodulazione di un tema atavico, da ultimo persino la ripetività e una certa dispersività, siano la forza e il limite iscritto ab origine nella sua opera; però è evidente che lo scrittore francese non sa inventare nulla né gli andrebbe di parlare d’altro se non della tenebra da cui, col suo nome e cognome, è uscito casualmente illeso e, in quanto autore, letteralmente redivivo. In Italia non ha avuto molti lettori e, in genere, non così entusiasti: andrebbe ricordato a costoro che se si fosse appena limitato a mostrare come l’ «identità», fra quanti oggi la bestemmiano, sia invece una parola impronunciabile, gravida di buio e di strage, Patrick Modiano avrebbe già assolto il suo compito di uomo e di scrittore.

M. R.

 

Tratto dalla Rivista n.29 (disegno di Luca Vernizzi

 

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