Evtushenko: «Quando Pasternak mi proibì di parlare, nei miei versi, della mia morte»

Evtushenko: «Quando Pasternak mi proibì di parlare, nei miei versi, della mia morte»
«La poesia è più necessaria alla gente quando essa dimentica di averne bisogno. Non esistono persone incapaci di amarla»

 

di EVGENIJ EVTUSHENKO

 

La poesia è più necessaria alla gente proprio quando essa dimentica di averne bisogno. Sono convinto che non esistono persone incapaci di amare la poesia, hanno solo bisogno di essere aiutati a scoprire questo amore. Viviamo in un’epoca di un pericoloso riscaldamento globale, abbinato, paradossalmente, ad un altrettanto pericoloso raffreddamento dei rapporti umani. La poesia è il genere più legato alla confessione, ma molti si nascondono dietro i propri versi, invece di trasformarli coraggiosamente in strumenti di apertura quasi chirurgica di se stessi. E quando i poeti nascondono se stessi ai lettori, lo stesso fanno i lettori. Ma solo la confessione reciproca può portare ad un vero spirito umanitario. Suggerirei ai nostri capi di Stato di riunirsi, almeno una volta ogni tre anni, e, invece di dare l’uno all’altro consigli edificanti, confessare le colpe personali e quelle del proprio Paese: ci sarebbe più fiducia reciproca. Non sarebbe abbastanza? La poesia della sfera intima si è notevolmente rinsecchita e persino nel sesso si denota una certa ritualità burocratica. Recitare versi per un pubblico straniero è un’arte particolare. Hanno letto i miei versi, grandi della scena come Jean Villard, Laurent Terzieff, Anthony Hopkins, Vanessa Redgrave, Robert De Niro, John Voight, ma, a dire il vero, il migliore è stato Vittorio Gassman, di cui mi innamorai dopo aver visto Il sorpasso. Restai deluso nel sentire il suo primo disco, mentre lui rimase visibilmente stupito, nel nostro primo spettacolo al Teatro dell’Opera di Roma, nell’assistere ai miei fuochi d’artificio acustici. Si riprese subito. Abbandonò il suo «classicismo» e avendo  compreso che la mia arma principale era la passione, liberò la sua, come una tigre dalla gabbia, e il palcoscenico dell’opera si trasformò, come scriveranno i giornali, nella sala da scherma di due «istrioni». Ritengo che qualunque recital dovrebbe essere come la vita, tragico e comico, mentre l’interprete deve anche sapersi strappare la camicia dal petto per la passione. 

Non ho mai avuto il disprezzo snobistico verso il pubblico, né la tendenza a chiamarlo «folla». La folla, persino composta da persone di per sé buone, rischia di trasformarsi in un mostro pericoloso e cominciare a calpestarsi. Così accadde ai funerali di Stalin, quando nel caos della follia nazionale morirono o rimasero ferite centinaia di persone che cercavano di raggiungere la bara. Alcune spinte da una cieca adorazione per un uomo che aveva sconfitto Hitler; altre dall’odio per un assassino di tantissime persone; altre ancora, semplicemente per curiosità. La gente camminava sui corpi distesi per terra. Sentii accanto a me il cric del mappamondo di cartapesta schiacciato dalla folla nelle mani di un ragazzino con le lentiggini, che scoppiò in lacrime come se fosse stato schiacciato il vero globo terrestre, con uomini, alberi, fiumi, montagne. Una donna dai capelli bianchi, non ancora abbastanza anziana per averli bianchi lo abbracciò e lo strinse a sé. 

– Ti ricordi a memoria qualche poesia? 

– No... – singhiozzava – Perché hanno trattato così il mio mappamondo?... 

– Non certo per cattiveria, l’hanno fatto così, senza volere… – sospirò lei. – Non riesci a ricordare nulla? Quando si sta male, aiuta …

– So muovere le orecchie. Tutti ridono e allora rido anch’io… – confessò il fanciullo. – Ah, compagna, mi sono ricordato…– É di Pushkin sui decabristi: l’abbiamo fatta a scuola recentemente. Ma sa che quando li impiccarono, Pushkin disegnò patiboli sui alcune pagine manoscritte?

– Lo so – rispose lei – su, recita… Non avere paura di dimenticare, ti aiuterò… Mi ha salvata in prigione, questa poesia… 

– Perché, compagna, avete rubato qualcosa?

– No, sono io che sono stata derubata. A quelli come te. Perché sono una maestra. Solo che adesso non mi fanno tornare a scuola. E allora, su col nostro Pushkin?

– Compagna, posso cominciare dalla fine, e poi mi verrà in mente l’inizio...

E cominciò: «Compagno, credi, sorgerà…» . 

– La stella della felicità che incanta – continuò lei dolcemente, come se avesse tenuto la stella fra le dita e gliele avesse riscaldate. 

– La Russia si sveglierà di colpo dal sonno – aggiunse il ragazzino.

– E sui frantumi dell’autocrazia verranno scritti i nostri nomi. 

La fine fu recitata praticamente insieme dal ragazzino e dall’ex maestra, scarcerata per miracolo, rubata ai suoi allievi. D’un tratto sentii gli applausi. A Pushkin, al ragazzino, a quella donna; dalla folla venuta ai funerali di Stalin. Chissà perché ebbi improvvisamente la sensazione che tutto attorno si fosse schiarito, anche se si stava facendo notte. Guardai attorno e vidi che, in realtà, molti avevano ascoltato la donna e il ragazzo, e i loro occhi erano diversi, non dico felici, ma luminosi, non disperati. Ecco che cosa fa la poesia con la gente: non lascia che si abbandoni alla disperazione. Ci sono poeti che temono la folla. Io sono il figlio della folla, che mi ha allevato, dato da bere nella mia infanzia vagabonda. Nel ’41, all’età di nove anni, tutto solo, feci un viaggio di quattro mesi e mezzo da Mosca, assediata dai tedeschi, per raggiungere le mie nonne alla stazione di Zima – il mio Macondo siberiano – e cantavo nei vagoni le canzoni d’amore dei malavitosi. Sono stati questi i miei primi concerti in pubblico. Come potrei avere paura della gente che non mi lasciò morire di fame, offrendomi la metà dei 400 preziosi grammi di pane nero previsti dalle tessere annonarie e, a volte, dandomi anche la metà della metà rimasta? Questa non è solo la mia Russia, dalla quale per me iniziava l’umanità, ma è l’umanità intera, la patria comune di tutte le nostre patrie. Adesso non si può essere patriota solo della propria nazione. «La disgrazia non può essere straniera», scrissi tempo fa. La poesia mi dimostrò la sua forza salvatrice imperitura, quando dopo il mio poema Il colombo di Santiago sul suicidio di un ragazzo cileno, ricevetti più di cinquecento lettere di gratitudine, perché quel poema aveva salvato i loro autori dal suicidio.Ed è proprio per questo che non mi stanca mai viaggiare e recitare versi, non restando schiacciato, come il mappamondo del ragazzino. Ho recitato versi in 96 Paesi e adesso torno ancora nella mia cara Italia, assieme a mia moglie Masha, con cui trascorsi la luna di miele. Qui mi aspettano, sempre vive, le ombre di tanti miei amici andati via per sempre:  Giulietta Masina e Federico Fellini, Pier Paolo Pisolini (al quale il governo sovietico non permise di farmi fare la parte di Cristo nel  film Il Vangelo secondo Matteo), Alberto Moravia, Vittorio Gassman, Carlo Levi, Renato Guttuso. Quando ho compiuto 75 anni, nello spazio più grande della Russia – lo Stadio Olimpico di Mosca - si sono riuniti diecimila amanti della poesia.  C’è qualcuno che parla della fine della poesia mondiale? Adesso è diventata nuovamente di moda la teoria, secondo la quale lo scrittore non deve niente a nessuno. Io, invece, mi sono sempre considerato debitore di tantissime persone, fra cui Pasternak, che una volta mi ha proibito di parlare, nei versi, della mia morte.

(Traduzione di Ljudmilla De Luca)

 

 

/Rivista 26-27, gennaio-giugno 2014/

 

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