di Carlo montaleone
Il nome di Lucio Lami è legato alla rinascita del Pen, che ha naturalmente una data precisa: 27 giugno 1988. Non era certo uno sconosciuto il cinquantaduenne giornalista che convocava a Milano alcuni scrittori, ancora legati al Pen, per salvare la sezione italiana dell’associazione. Forse, in quel caso, Lami improvvisava, ma quante volte non aveva dovuto improvvisare, e pericolosamente, nel suo mestiere di corrispondente di guerra? Lo aveva fatto in Afganistan, alla fine del 1981, da clandestino, quando per giorni non aveva dato notizie di sé a Indro Montanelli che gli aveva proibito di fare sfoggio di coraggio; in quel frangente Lami aveva dovuto brevettare (e sperimentare immediatamente) una quantità di tattiche mentali e fisiche impressionante: dover marciare e ancora marciare cercando di capire tutto di un panorama fatto di montagne scoscese e di uomini semplici, ma inscrutabili, che l’avrebbero guidato lungo 700 estenuanti chilometri. Mutatis mutandis, l’imperativo di non fare passi falsi continuava anche nella Milano alla fine degli Ottanta, città che alcuni umoristi avevano definito «da bere», in un ambiente letterario popolato da felpati individualisti stirneriani sempre pronti ad abbracciare l’amico per impallinarlo meglio. D’altra parte, dopo la morte di Mimì Piovene, la leonessa che aveva ricoperto il ruolo di segretario generale del Pen accanto a Soldati presidente, bisognava decidere in fretta. Chiusa la sede romana, occorreva impedire che il Pen italiano si estinguesse. La decisione di convocare vecchi amici legati al Pen, di investirli della responsabilità di una rifondazione, era dunque una sfida. Senza quell’atto iniziale, i cui effetti durano da allora, non saremmo qui a parlare di Lami. Anzi, non saremmo qui affatto. Lucio Lami diventerà presidente del Pen nel 2002, dopo il triennio di Ferdinando Camon e i nove anni di Mario Luzi. Intanto, da 12 anni aveva dato vita al premio letterario del Pen, a Compiano. Un’impresa difficile, e non solo per i finanziamenti da trovare ogni anno, ma per la formula che sganciava il premio dai poteri delle grandi case editrici per conferirlo agli scrittori. Ma Lami era stato vicepresidente del Pen lungo diciotto anni; come si dice, conosceva l’ambiente. E l’impresa di Compiano riesce; dalle selezioni lì avvenute passano i migliori. Però resta il fatto della fiacchezza endemica delle organizzazioni di cultura in Italia, resta il fatto che tale fiacchezza sia dovuta, oltre che a cause endogene, alla disattenzione sistematica e talora al fastidio becero dei governanti. Lucio Lami ne ha perfetta coscienza e cerca di reagire. Grazie alla spinta di validi collaboratori, battezza la formazione di un gruppo all’interno del Pen che si intitola Writers in prison; non si vuole che passino sotto silenzio angherie, persecuzioni e torture decretate da governi che obbediscono unicamente al selvaggio desiderio di durare. Writers in prison è un’esperienza che si richiama a esempi dell’International Pen e produce due appuntamenti internazionali di grande rilievo a Venezia e Milano. Da quell’esperienza maturerà la scelta, oggi praticata dal Pen italiano, di proteggere economicamente e legalmente scrittori dissidenti in Cina, a Cuba, in Messico, ovunque sia il caso. Lucio resterà presidente del Pen fino al 2007 quando passerà la fiaccola al poeta Sebastiano Grasso (del Pen italiano Lami è adesso presidente onorario). Ma chi è, o meglio, che cos’è quest’uomo che ama diffondersi sul perché non può non dirsi toscano? Lami tiene all’albero familiare e, più in generale, alle genealogie. La sua conversazione è punteggiata da storie che riguardano i Lami che scorticano il suolo toscano dal XII al XIX secolo (tutto provato da carte e date; capitani, cavalieri, teologi, eruditi e anche quel Nicolò Lami, ultimo guardasigilli del Gran Ducato di Toscana, fedele a Leopoldo); poi il discorso di Lucio intercetta altri Lami dispersi un po’ dovunque. Comunque sia, Lucio Lami non nasce in Toscana, ma in Lombardia nel 1936. Esordisce nel giornalismo nel 1960; lavora con i grandi editori dell’epoca: Rizzoli, Mondadori, Rusconi, Mazzocchi. La svolta cruciale avviene però nel 1974 quando entra nella redazione del Giornale nuovo di Indro Montanelli. Come inviato speciale inanella viaggi su viaggi ovunque vi siano teatri di guerra: Cambogia, Laos, l’Afganistan (prima raccontato negli articoli sul Giornale nuovo e poi in uno splendido libro hemingwaiano intitolato Morire per Kabul dell’82), prima e seconda guerra del Golfo, Libano, Ciad, Polisario, Somalia, Angola, Mozambico, Nicaragua, Panama, Salvador, Perù… Dalle sue corrispondenze (e dai libri che talora ne ha tratto) emerge una figura di giornalista che riduce al minimo ogni forma di intermediazione. Se studia lungamente il campo sui libri, non scrive se non di ciò che ha visto, toccato, parlato. Per dirla con Montaigne, Lami appartiene alla razza dei topografi e non dei cosmografi; in questo assomiglia al suo amico Ettore Mo, l’altro grande viaggiatore del giornalismo italiano che, se non avesse sbagliato mestiere, avrebbe potuto fare l’antropologo. La scrittura di Lami è a grana fine, frasi brevi, mai il doppio aggettivo, molti verbi d’azione, struttura paratattica mai compiaciuta. Non saprei dire se egli sia un pessimista storico; tuttavia in lui è percepibile la convinzione che, se non è facile interpretare la vita, è ancora più difficile dirigerla. Forse per questo egli tende al dettaglio esemplare. In un certo senso la scrittura redime: i documenti che uno è in grado di produrre vedendo, toccando, parlando devono essere utili. Giovanni Arpino ha parlato di Morire per Kabul come di un libro esemplare, da scuola di giornalismo. Arpino aveva ragione così come coloro che hanno gratificato Lami col Premio Max David, col Premio Hemingway e con l’Estense. Ma si può chiudere un pezzo su di lui sorvolando sul fatto che Lucio Lami sia, incontestabilmente, uno dei più grandi esperti mondiali di storia equestre?