Toller antinazista in trionfo per le strade di Dubrovnik

Toller antinazista in trionfo per le strade di Dubrovnik

Archivi. letterati ed «esprit de guerre». a 90 anni dal celebre convegno internazionale del pen in croazia (1933), alcuni spunti su impegno e polemica Intellettuale di PAOLA CATTANI

Uno dei più vivaci e sofferti congressi nella storia del Pen International si tenne a Dubrovnik nel maggio del 1933, appena un paio di settimane dopo la
tragica notte dei roghi di libri con cui la Germania nazista dava prova della sua nuova, aggressiva potenza. Tra gli effetti immediati del consolidamento del potere nazista, ci furono anche le ingerenze ai danni del Pen tedesco, nei primi mesi del ’33 infiltrato da scrittori filo-hitleriani ed epurato di un considerevole numero di membri storici (tra cui i fratelli Thomas e Heinrich Mann, Lion Feuchtwanger ed Erich Maria Remarque). Il Pen International si trova dunque nel convegno di Dubrovnik ad affrontare un delicato quesito: quali contromisure prendere nei confronti di centri in chiaro contrasto con gli ideali dell’organizzazione, ovvero l’amicizia internazionale e il principio per cui l’arte non conosce padroni, frontiere, né limiti di espressione? Il convegno passerà alla storia per l’intensa prolusione di Ernst Toller, ebreo tedesco da poco esiliato negli Stati Uniti, che denuncia le vessazioni perpetrate dai nazisti ai danni di numerosi autori ed opere, e invoca una reazione delle forze «spirituali» contro la violenza e la paura. A seguito di questo discorso che infiamma pubblico e stampa (Toller viene letteralmente portato in trionfo  attraverso le strade di Dubrovnik), la delegazione tedesca filonazista abbandona il congresso; il Pen International riterrà di avere espulso il Pen tedesco infiltrato dai nazisti, mentre il gruppo tedesco sosterrà di essersene uscito per primo; ad ogni modo, all’indomani del congresso nasce il primo centro Pen nazionale extraterritoriale, quello tedesco costituito formalmente a Londra nel dicembre 1933 ad opera di Lion Feuchtwanger, Ernst Toller e Max Herrmann-Neisse. Nel contesto della crescente tensione internazionale, il Pen riafferma così, a fatti e a parole, i principi di libertà di pensiero e di espressione su cui si fonda, e le ragioni e l’importanza della sua esistenza. Questa porzione di storia intellettuale abbastanza nota; meno conosciute sono le modalità del dibattito condotto nel corso del convegno. Per reagire all’anomalia rappresentata dal Pen tedesco, i delegati americani suggeriscono di riaffermare in un documento pubblico le finalità e i valori del sodalizio, rendendo implicitamente necessaria l’espulsione dei Centri con condotte incoerenti rispetto ai principi comuni condivisi. Le delegazioni di Francia, Belgio e Polonia mirano invece a promulgare un’aperta dichiarazione di ostilità nei confronti della Germania nazista. La discussione delle due mozioni genera grande concitazione, non solo per la posta politica in gioco, ma anche per come alcuni gruppi di delegati si irrigidiscono nelle loro posizioni. I francesi e i belgi (guidati da Jules Romains) chiedono di votare riducendo il più possibile il momento di dibattito, e arrivano per questo anche ad appoggiare la richiesta della delegazione tedesca di
negare il diritto di parola agli scrittori tedeschi fuoriusciti, fra cui in particolare Ernst Toller e Sholem Ash. Herbert George Wells, che dirige i lavori in qualità di presidente del Pen International, difende però tenacemente il diritto di espressione di tutti i presenti. A Wells non sfugge che la proposta francese, intrinsecamente polemica, è destinata a far degradare rapidamente il dibattito, ed egli si adopera dunque per approvare un ordine del giorno che contempli per prima la proposta americana, meno divisiva. Taluni (tra cui il delegato americano Henry Seidel Canby) invocano metodi di dibattito precipuamente «parlamentari», ovvero un confronto democratico che permetta a tutti di esprimersi nel rispetto di procedure comuni; altri mostrano invece una certa ritrosia verso i metodi democratici. Filippo Tommaso Marinetti, presidente del Pen italiano, mette dal canto suo in guardia rispetto alla violenza che egli giudica intrinseca ai dibattiti parlamentari – che abbia in mente il Parlamento italiano, sempre meno democratico e destinato di lì a poco ad essere definitivamente liquidato da Mussolini nel 1939? Wells ad ogni modo impedisce che si arrivi al voto senza libera discussione e si oppone nel modo più categorico a procedure diverse da un dibattito aperto e pubblico, arrivando anche a minacciare le proprie dimissioni da presidente. Egli si sforza di mantenere il più a lungo possibile la discussione costruttiva e serena; in seguito, solo la sua tenace adesione ai principi democratico-liberali impedisce che Toller sia privato del diritto di espressione. È significativo che la stampa dell’epoca abbia registrato l’evento come una vittoria dell’ethos democratico anglosassone sulla confusione degli europei. Nel 1933, l’accettazione delle modalità dialogiche democratico-liberali non è scontata nemmeno in un consesso di scrittori, e il delegato americano arriva a chiedersi cosa potrà mai accadere in riunioni ed istituzioni meno intellettuali. Paradossalmente, proprio i pacifisti (nel caso specifico Romains) risultano i meno liberali. Thomas Mann, assai polemico durante la Prima guerra mondiale contro le posizioni pacifiste di Romain Rolland, ai suoi occhi grossolanamente ingenue, aveva del resto osservato che quanti voltano «le spalle con spregio alla calma  considerazione delle cose, a ogni pacato sentire epico, alla concretezza e alla serenità», tutti «tesi alla rapidità, alla veemenza delle mosse, all’espressione carica e orridosa», indipendentemente dalle idee professate, «pacifisti o no, poco importa, la guerra ce l’hanno addosso!». Gli fa eco il francese Paul Valéry, quando obietta al giovane militante filosocialista Jean Guéhenno (che riteneva la cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni troppo timida di fronte ai disordini della Storia) che i pacifisti e in maniera più generale gli intellettuali sono tutt’altro che immuni dall’esprit de guerre, come mostrano gli «atti di violenza» cui spesso sono riconducibili «arringhe, declamazioni, risoluzioni, manifesti». Valéry preferisce sforzarsi di «agire contro la guerra con le vie dello spirito», per contrastare tutto ciò tende a «mutare l’uomo in animale da combattimento». Piuttosto che «pensare ad abolire la guerra» – operazione che egli giudica velleitaria –, Valéry vorrebbe contribuire ad «eliminare in profondità la bestialità». Ineluttabile per la comunità, il conflitto va, piuttosto che eliminato, gestito e asservito a scopi utili, evitando che si
trasformi in una forza distruttiva per la società. È quanto spiega Benedetto Croce (presidente del Pen International dal 1949 a 1952), nelle pagine sull’«utilità della disputa» (Frammenti di etica). La disputa è preziosa nella misura in cui induce a determinare e formulare con maggiore chiarezza il proprio
 pensiero e dischiude nuove vie; va ritenuta un fecondo apporto all’avanzamento del pensiero e più in generale del mondo: può risultare benefica e d’ausilio al singolo e alla società tutta, a patto che si mantenga costruttiva. Il fine o la conclusione della disputa non stanno del resto per Croce nel raggiungimento di
un accordo tra individui; una convergenza tanto impossibile, quanto non auspicabile: «Solitari siamo tutti, perché tutti siamo individui cioè diversità […]  Ciascuno di noi ha la sua originalità, che non può fondersi nell’altrui, né fondere in sé l’altrui». Ciascuno dovrebbe accogliere in sé i propri avversari, come altrettanti stimoli al miglioramento. Osservazioni che continuano ad essere preziose nelle nostre società ormai stabilmente democratiche eppure esposte alle tentazioni della polemica sterile e distruttiva. ©

 

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