I PRESIDENTI ITALIANI DEL PEN 1948: Ignazio Silone (1900-1978)

I PRESIDENTI ITALIANI DEL PEN 1948: Ignazio Silone (1900-1978)

Spaziani: quando andavamo insieme in gita I ricordi della poetessa che fu amica dell’autore di «Fontamara»

 di MARIA LUISA SPAZIANI

Lo rivedo, sulla parete della mia stanza-studio in vista delle tegole erbose e digradanti del Babuino, lo specchio brunito con cornice barocca di circa mezzo metro, regalo di nozze nel marzo del 1957. E rivedo due eleganti signori che con antico stile bussavano alla mia porta recando il pacco. Erano i due direttori di Tempo presente. Uno, Nicola Chiaromonte, studioso e pensatore politico, lo conoscevo dal ’53 e lo frequentavo a Parigi dove lui era un alto funzionario dell’Unesco ed io avevo la mia prima borsa di studio. L’altro, invece, lo incontravo per la prima volta, ed era Ignazio Silone. Una vera amicizia anche con lui, sebbene durata solo sei anni. La ragione di questo loro regalo che è durato poco nella sua prima bellezza (una colf ciociara, credendo lo specchio incorniciato nel metallo dorato o addirittura d’oro, lo fregò energicamente col Sidol, rovinando il bellissimo legno d’epoca), la ragione era che un loro stimatissimo collaboratore da tre mesi, Elémire Zolla, era appunto l’uomo con cui mi sarei sposata un mese dopo. Conoscendo Chiaromonte da tempo, quando ancora venivo da Torino, gli avevo parlato di un giovane straordinario che alcuni amici avvicinavano nientemeno che alla figura di Piero Gobetti. Possedeva tutto il possibile scibile umano, era all’origine di lingua inglese per via dei genitori e conosceva almeno quattro lingue. Non aveva mai viaggiato perché era malato di tubercolosi, come racconta lui stesso, e le lingue e lo scibile li aveva assorbiti da una quantità di libri letti. Io, da scalcinato editore improvvisato, accettai di pubblicare il manoscritto (appunto scritto a mano), Saggi di etica e di estetica, di quel quasi ragazzo che abitava in una casa di via Pesaro, a Torino, davanti alla mia. Chiaromonte fu molto colpito dai miei racconti e mi chiese di presentarlo a lui e a Silone per una possibile assunzione alla rivista. Ci trasferimmo quindi a Roma e ci sposammo. Da quel momento anche Silone divenne «un vecchio amico»; ricordo le passeggiate che facevamo, anche noi due soli, lungo le pendici del Pincio e di Villa Borghese. Io amavo molto Uscita di sicurezza e una volta, essendo scesa in fretta senza cambiarmi, mi scusai dicendo che «sembravo una derubata». Rise e capì al volo che si trattava di una citazione. Nel libro aveva parlato di suo padre: un carabiniere, credo, che l’aveva avvertito che nei dintorni della casa si aggirava un individuo che, da come era vestito, si presumeva fosse un ladro. «Strano – gli aveva detto suo padre –. Appunto da come lo vedrò vestito penserò piuttosto che sia un derubato». Io non avevo una grande cultura né forse una grande sensibilità sociale nella prima parte della mia vita tutta dedicata a libri d’altra natura e alla poesia. Forse Ignazio è stato il mio primo maestro assieme a Leo Valiani. Dovevo poi appassionarmi a un altro suo libro, quello famoso di Celestino V, al quale ho pensato tante volte ai tempi del mio insegnamento all’università di Messina, ma non soltanto, quelle rare volte, forse purtroppo note a voi tutti, quando vi trovate di fronte a un’impasse di difficile soluzione: pensate in tutta coscienza di essere nel giusto, di aver giudicato in tutta equità, quando qualche voce vi avverte che quell’equità è impraticabile e che per ragioni superiori si deve addivenire a un compromesso. Se non addirittura al rovesciamento del giudizio. Questo è avvenuto più volte, ci ricorda Silone, a quel «povero cristiano» di Celestino che darebbe ragione a certe suore ma non lo potrebbe fare se la necessità di obbedire a un munifico padrone non sconsigliasse assolutamente di applicare la pura ragione del cuore. Cito a memoria. Poche note ho serbato di quelle mie conversazioni con Ignazio, e non è la prima volta che mi dispero pensando a quanto andiamo dissipando nel tempo per mancanza di attenzione. Mi rimangono forse due o tre sue lettere consegnate con tutti i miei carteggi al «Fondo manoscritti» dell’università di Pavia. Certe lettere dicono molto, ma non sono paragonabili alle parole pronunciate e al calore e al timbro di un’amicizia difficile da ricatturare nei decenni.

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