Scrivere per vendetta, non per giustizia «Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui»
di Emanuele Bettini
«Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal Municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno «strumento del potere», e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette». Con queste parole lo scrittore e poeta Ferdinando Camon dà vita al proprio sito web, invitando il lettore ad addentrarsi nel percorso biografico e polemico dei suoi 75 anni. Fra i maggiori narratori della letteratura italiana, è tradotto in 22 Paesi. Nato in una piccola frazione del piccolo comune di Urbana in provincia di Padova nel 1935, Camon è subito coinvolto nella tragedia della II guerra mondiale. I bombardamenti, i rastrellamenti e le impiccagioni hanno lasciato una traccia indelebile nella sua memoria di bambino costretto a convivere con la barbarie nazi-fascista, ma anche con la lotta partigiana che in quelle zone ha rivelato tutta la brutalità del conflitto. La sua vita è punteggiata da tanti ricordi. Come quello del grande olmo nella campagna paterna, sul quale il giovanissimo Camon saliva per osservare le battaglie aeree tra i caccia tedeschi e le fortezze volanti americane, o la cattura dei partigiani da parte delle SS; «fu così che vide un suo parente, membro di una squadra della brigata partigiana Garibaldi, mentre si arrendeva in un campo di frumento incendiato: aveva la pancia segata da una raffica, dalla ferita uscivano le viscere, e lui se le reggeva con le mani». Questo episodio, così drammatico e terrificante, verrà ripreso nella raccolta Liberare l’animale (1973) e nel romanzo Mai visti sole e luna (1994). I ricordi di Ferdinando Camon sono talmente vivi che egli riprende l’argomento parlando di Boris Pahor, lo scrittore sloveno deportato nei campi nazisti: «Io sono italiano, e ho appena finito di leggere un libro indimenticabile, contro gli italiani fascisti che a Trieste e in Istria han fatto cose immonde, che noi oggi, loro discendenti, non sappiamo più». In ogni momento del suo percorso letterario Camon non dimentica questi temi, che gli tornano in mente puntuali fino a tormentarlo nel profondo. Nell’articolo scritto sul quotidiano cattolico Avvenire (1° aprile 2007), a proposito di Primo Levi, ripropone indirettamente al lettore il quadro della sua infanzia lacerata: «Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m’è arrivata una sua lettera. Mi viene addosso una tristezza infinita e mi dico: ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi. Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant’anni prima, e che dunque 1999: Ferdinando Camon (1935) le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 40-45 anni prima». Altri romanzi riprendono le tematiche del conflitto: Il quinto stato (con la prefazione di Pier Paolo Pasolini, 1970), tradotto in francese per iniziativa di Jean-Paul Sartre; La vita eterna (1972) e Un altare per la madre (Premio Strega, 1978). La costante della deportazione e della tortura coinvolgono talmente Ferdinando Camon che nell’agosto del 2008 scriverà un articolo, pubblicato su un quotidiano veneto, dedicato a Solgenitsin, Gulag e lager. Più che un articolo, è una meditazione sul nazismo e sul comunismo raffrontati attraverso la dinamica dei campi di sterminio e di lavoro. Mentre è preso da queste meditazioni, lo scrittore sviluppa tutto un suo articolatissimo discorso sul terrorismo e sulle migrazioni. Siamo arrivati agli anni di piombo, al sequestro Moro e al terrorismo delle Brigate Rosse. Stagioni che si ritrovano in Occidente (1975) e nella Storia di Sirio (1984). Altro tema molto caro è quello della famiglia: La malattia chiamata uomo (1981) e La donna di fili (1986). Con il libro Mai visti sole e luna vince il Premio Pen nel 1994. Così Ferdinando Camon si avvicina al Pen Club Italiano finché, nel 1999, ne diviene presidente, subentrando a Mario Luzi. Nel frattempo pubblica un romanzo dedicato ai flussi migratori: La terra è di tutti (1996). L’eredità culturale lasciata da Mario Luzi alla nuova presidenza del Pen Italiano è gravosa e impegna Camon nel congresso mondiale di Varsavia, sempre del 1999. Strenuo sostenitore della scrittura e della lettura, Camon afferma: «Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde. La scrittura registra il lavoro del mondo». Molteplici impegni di carattere internazionale lo inducono a lasciare la presidenza del Pen Italiano nel 2002; la sua attività letteraria e il suo impegno sociale lo vedono però sempre in prima fila nella lotta per la libertà di stampa.