LIU XIAOBO PRESIDENTE DEL PEN CINESE

LIU XIAOBO  PRESIDENTE DEL PEN CINESE

Liu Xiaobo, 55 anni, già presidente del Pen cinese indipendente (per la Pace) e Mario Vargas Llosa, 74 anni, già presidente del Pen International (per la Letteratura) sono i vincitori di due Premi Nobel 2010. Liu Xiaobo è tuttora in carcere, essendo stato condannato a undici anni di prigione, il giorno di Natale 2009. La notizia del Nobel a Liu Xiaobo è arrivata mentre il Pen Italia stava organizzando per l’8-12 novembre prossimo, alla Fondazione Rockefeller di Bellagio (Como), il convegno sul 50° anniversario del comitato Writers in prison (Scrittori in prigione) del Pen internazionale, cui parteciperanno una ventina di scrittori provenienti da diversi Paesi. Edito da Es, per l’occasione, il volume Parole di libertà con scritti di Adonis, Aguilera, Cacho, Chi Thien, Cuadra, Dobrovolskaja, Jahanbegloo, Kadare, Kire Iralu, Laâbi, Mapanje, Nafisi, Pas’ko, Zhou Qing, Saramago, Skif, Tawfik e Zhiti. Anticipiamo la prefazione di Umberto Eco, socio del Pen Italia.

di Umberto Eco

Prima di questo volume usciva in italiano nel 1998 Scrittori dal carcere (Feltrinelli) che traduceva This Prison Where I Live, apparso due anni prima per i tipi di Cassell, Londra, per celebrare i 75 anni del Pen Club e ricordare «la sopravvivenza dei numerosi scrittori che sono stati ingiustamente carcerati durante questi settantacinque anni». Ora ecco questa seconda raccolta che, pur se intitolata a un appello per la libertà, è ancora una volta scritta da persone che la libertà hanno quasi tutte perduto per periodi più o meno lunghi, e subìto il carcere, la tortura, l’arresto o l’esilio. Il Pen non si occupa esclusivamente degli scrittori in prigione, ma anche di quelli a piede  libero; eppure pare quasi obbligato a dedicare non un solo libro a questo tema che, in un mondo meno dissennato, dovrebbe essere eccezionale – ma non lo è. Noi che viviamo in Paesi democratici non ci rendiamo forse conto di come una sorta di perversa forza magnetica ponga in stato di mutua attrazione il carcere e la letteratura. D’altra parte non è storia nuova. A cominciare da Zenone di Elea che viene imprigionato e torturato dal tiranno e, fingendo di rivelargli sottovoce il nome dei suoi complici, gli stacca con un morso un orecchio. Per non dire di Socrate che, tra Critone e Fedone, ci dice le cose più memorabili sul rispetto della legge e sull’immortalità dell’anima, mentre nel carcere attende e poi affronta la morte. Per terminare con Silvio Pellico, e con Gramsci – ma non perché la serie lì si arresti. Cosa rende così solidali la cella e la scrittura? È che sbagliava l’introduzione al volume precedente dicendo che s’intendeva celebrare «la sopravvivenza dei numerosi scrittori che sono stati ingiustamente carcerati durante questi settantacinque anni». Perché «ingiustamente»? Giustamente, direi, almeno dal punto di vista dei regimi che li hanno arrestati e reclusi. A giustificare l’esigenza di recluderlo non è necessario che uno scrittore si muova anche, o eminentemente, come soggetto politico e, come Zenone, cospiri attivamente contro il tiranno. Si veda in questo volume la vicenda di Visar Zhiti: gli è bastato scrivere poesie considerate dai redattori di una casa editrice «tristi ed ermetiche», e quindi ostili al regime. Poi la pratica è automaticamente passata al Comitato centrale del partito albanese e al ministero degli Interni, e Zhiti si è guadagnato giustamente dieci anni di carcere. È che la poesia fa paura ai regimi autoritari e dittatoriali anche se parla soltanto, come nel caso di Zhiti, di rose. Era troppo esigente e puritano Brecht, che negli anni Cinquanta ci ha messo tutti in crisi avvertendo che in tempi come i suoi (e i nostri) anche parlare di alberi sarebbe stato un delitto perché sarebbe equivalso a tacere sulle sofferenze e i crimini che ci circondano. No, fortunatamente la letteratura parla contro il crimine anche quando parla soltanto di alberi.

Perché persino gli alberi dei poeti e dei buio di una detenzione senza fine. Ma, con una sorta di religioso cinismo, ci sia consentito di dire che l’esistenza stessa di questi scrittori da galera ci conferma, e chiarisce ai molti che non capiscono, a cosa serva la letteratura: a dire sempre qualcosa che non consola chi pratica, come una religione, la malafede.

Dalle testimonianze di questo libro emerge che sempre, dopo sofferenze e umiliazioni tali da fiaccare ogni energia, tutti questi condannati sono riusciti a ritrovare l’entusiasmo della creazione letterariauna volta usciti dal carcere, e alcuni di loro lo hanno conservato durante la prigionia, scrivendo in prigionia, scrivendo della prigionia, talora mandando i propri versi a memoria quando non avevano neppure la carta per serbarne traccia. Come a dire, ancora una volta sfiorando il cinismo, che la reclusione fa bene alla letteratura. E d’altra parte lo diceva anche con altre parole Josif Brodskij introducendo Scrittori dal carcere: la limitazione di spazio compensata dall’eccesso di tempo ha reso la carcerazione come «levatrice della letteratura», come «mezzo di trasporto epifanico». Troppo? Lasciamo la responsabilità di questa mistica del carcere a chi, come Brodskij, laggiù ci è stato. D’altra parte si sa che, nelle sue varie forme, spesso il dolore non fiacca ma affina la spiritualità e la sofferenza diventa sorgente di reatività. Non sto facendo della letteratura sulla sofferenza altrui. Non si gettino in cella gli scrittori perché l’orrore li renda più percettivi, così come si castravano i fanciulli perché diventassero buoni cantori per la Cappella Sistina, o i comprachicos deformavano i lineamenti dell’Uomo che Ride. Questo stesso libro è un appello perché nessuno venga più privato della libertà a causa di ciò che ha scritto. Ma l’appello viene da chi ha affinato le proprie capacità di rappresentare l’orrore e la stupidità (la banalità del male) proprio usando come arma la punizione che gli era stata inflitta. Da cui la contraddizione dei tiranni, che gettando gli scrittori nelle segrete, affinché tacciano, collaborano ad amplificarne la voce. narratori fanno tanta paura al tiranno? Perché, comunque lo scrittore ne parli, per il solo fatto di fissare la nostra attenzione sul movimento delle loro fronde, e in modo mai fatto prima, chi scrive, come suggerisce in questo libro Abdellatif Laâbi, rifiuta «l’uniforme scimmiesca, lo stare sull’attenti, l’inno vendicatore, i rumori degli stivali, le marce forzate, i fili spinati della patria, la stupidaggine dei consensi, la peste dell’orgoglio, la prigione di un’unica lingua e religione, il folclore debilitante dei segni distintivi: acconciature, copricapo, barbe, trucco, medaglioni, ciondoli, anelli, rosari, amuleti e tutta la chincaglieria che da tempo sono serviti per imbrogliare il popolo».

Quanti sudari previsti per noi sin dalla culla, la letteratura lacera e getta sulla faccia orribile dei moloc che vorrebbero seppellirci vivi... Certo, come esseri umani dobbiamo soltanto deplorare che tante persone abbiano perso la libertà e sofferto in modo indicibile solo perché avevano parlato, o avevano rifiutato di parlare. E il Pen, come altre organizzazioni, esiste proprio per cercare di sottrarre tanti scrittori al buio di una detenzione senza fine. Ma, con una sorta di religioso cinismo, ci sia consentito di dire che l’esistenza stessa di questi scrittori da galera ci conferma, e chiarisce ai molti che non capiscono, a cosa serva la letteratura: a dire sempre qualcosa che non consola chi pratica, come una religione, la malafede. Dalle testimonianze di questo libro emerge che sempre, dopo sofferenze e umiliazioni tali da fiaccare ogni energia, tutti questi condannati sono riusciti a ritrovare l’entusiasmo della creazione letteraria una volta usciti dal carcere, e alcuni di loro lo hanno conservato durante la prigionia, scrivendo in prigionia, scrivendo della prigionia, talora mandando i propri versi a memoria quando non avevano neppure la carta per serbarne traccia. Come a dire, ancora una volta sfiorando il cinismo, che la reclusione fa bene alla letteratura. E d’altra parte lo diceva anche con altre parole Josif Brodskij introducendo Scrittori dal carcere: la limitazione di spazio compensata dall’eccesso di tempo ha reso la carcerazione come «levatrice della letteratura», come «mezzo di trasporto epifanico». Troppo? Lasciamo la responsabilità di questa mistica del carcere a chi, come Brodskij, laggiù ci è stato. D’altra parte si sa che, nelle sue varie forme, spesso il dolore non fiacca ma affina la spiritualità e la sofferenza diventa sorgente di creatività. Non sto facendo della letteratura sulla sofferenza altrui. Non si gettino in cella gli scrittori perché l’orrore li renda più percettivi, così come si castravano i fanciulli perché diventassero buoni cantori per la Cappella Sistina, o i comprachicos deformavano i lineamenti dell’Uomo che Ride. Questo stesso libro è un appello perché nessuno venga più privato della libertà a causa di ciò che ha scritto. Ma l’appello viene da chi ha affinato le proprie capacità di rappresentare l’orrore e la stupidità (la banalità del male) proprio usando come arma la punizione che gli era stata inflitta. Da cui la contraddizione dei tiranni, che gettando gli scrittori nelle segrete, affinché tacciano, collaborano ad amplificarne la voce.

 

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