Un amore nato all’ombra del Pen

Un amore nato all’ombra del Pen

di SANDRA PETRIGNANI

Nata il 14 luglio del 1916 (ricorre adesso il centenario), Natalia Ginzburg aveva 33 anni quando, il 5 dicembre del ’49, annuncia alla sua amica Ludovica Nagel: «Mi sposo con un uomo che si chiama Gabriele Baldini». Glielo descrive accuratamente: «Ha trent’anni, i capelli castani e gli occhi marroni e la barba». E aggiunge in un soffio: «Io gli voglio molto bene e sono felice». L’aveva conosciuto quattro anni prima, quando «compariva qualche volta in via Uffici del Vicario», nella sede romana della Einaudi, dove lavoravano sia Natalia che la Nagel, ed era stato anche segretario di redazione della rivista «Aretusa», diretta da Carlo Muscetta, su cui la Ginzburg aveva pubblicato, nel marzo del ’45, il racconto Inverno in Abruzzo. Era bellissimo Baldini da giovane, lo ricordano tutti quelli che l’hanno conosciuto in quel periodo. Lo conferma la stessa Ginzburg che ne dà questo ritratto in Lui e io (raccolto in Le piccole virtù): «Era, da ragazzo, bello, magro, esile, non aveva allora la barba, ma lunghi morbidi baffi; e rassomigliava all’attore Robert Donat». Quando si ritrovano, lui è un po’ ingrassato e non somiglia più a Donat (quello di Addio, Mr. Chips), «ma piuttosto a Balzac». E dove avviene questo secondo fatale incontro? È sempre la scrittrice a riferirlo all’amica (in Lettere a Ludovica, a cura di Carlo Ginzburg, edizioni Archinto): «Ci siamo incontrati al congresso del Pen Club a Venezia, nel settembre scorso, e abbiamo deciso di sposarci dopo due giorni». Nel 1949, durante quel convegno in Laguna, il XXI, nonché «uno dei più attesi» secondo il corrispondente del Times Literary Supplement, viene nominato presidente dell’International Pen, Benedetto Croce, che ha 83 anni e sostituisce il poeta belga, premio Nobel, Maurice Maeterlinck, morto qualche mese prima. Arrivano a Venezia, in quella occasione, circa 500 scrittori da tutto il mondo. Fra gli stranieri: Julien Benda, John Dos Passos, Alfred Döblin, Wystan Hugh Auden, Jules Supervielle, Stephen Spender e Kate O’Brien. Fra gli italiani noti all’estero: Mario Praz, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Carlo Levi, Giuseppe Antonio Borgese e Ignazio Silone (presidente della sezione italiana del Pen). E, naturalmente, anche il trentenne Gabriele Baldini – che, sino ad allora, aveva pubblicato Panzini: saggio critico (1941) e Edgar Poe: studi (1942) – e la trentatreenne Natalia Ginzburg, autrice de La strada che va in città e altri racconti (1945) e di É stato così (1947). Croce resta presidente sino al 1952, quando si spegne a Napoli, nella biblioteca di casa.

 Finalmente, dunque, Natalia Ginzburg può dichiararsi «felice», dopo gli anni di lutto e di dolore. Leone Ginzburg, suo primo marito, padre dei suoi tre figli nati fra il ’39 e il ’43, è morto all’inizio del ’44, imprigionato e torturato in carcere, come partigiano e come ebreo, per mano dei tedeschi che hanno occupato Roma, città aperta. Lei sola ha potuto vederne il corpo martoriato, che ricordava il Cristo morto del Mantegna. «E le mani erano quelle che spezzavano il pane e versavano il vino» aveva scritto in quell’anno infernale in una rara poesia, Memoria, che finiva così: «E deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa». Ora il fuoco, accanto a Gabriele, può di nuovo accendersi, la casa tornare a riempirsi di voci, di persone, di bambini. Lontano il periodo di disperazione e confusione in cui, avendo deciso di non uccidersi (ne aveva avuto la tentazione) e di non essere «diabolicamente infelice», ma soltanto inevitabilmente infelice, aveva cercato di innamorarsi di nuovo, votandosi all’umiliazione e alla sconfitta. Il tentato «suicidio» con i sonniferi («Non capivo bene se volevo dormire molto a lungo o morire» ha scritto nel racconto autobiografico Estate) accadde nell’estate del ’45 «per un uomo, ma poi anche per tante altre cose», per troppa infelicità appunto, perché aveva deciso di continuare a vivere, ma non ce la faceva e forse era lei che «guardava il volto di un morto e gli chiedeva perdono». 

L’aiutò in quella drammatica circostanza un’altra amica, l’intellettuale cattolica Angela Zucconi, che la convinse a intraprendere una terapia col suo psicanalista, Ernst Bernhard, protagonista di un altro racconto autobiografico, La mia psicoanalisi, scritto da Natalia Ginzburg qualche tempo dopo e raccolto in Mai devi domandarmi. Le sedute non durano molto, il tempo di riprendersi e Natalia scappa da Roma, torna a Torino e si ricongiunge ai figli, che, non riuscendo a farsene carico, aveva affidato a sua madre. Un anno più tardi la ritroviamo di nuovo legata a qualcuno, «con pochi soldi, ma contenta» scrive ancora a Ludovica nel settembre del ’47. Dall’estate, le dice, «voglio bene a un uomo, e lui vuole bene a me […] senza autolesionismi e senza trucchi». Non sappiamo chi sia quest’uomo. Forse Rocco Scotellaro, il giovane poeta lucano che in quel periodo si era fugacemente invaghito di lei, come rivelano i suoi diari? Ludovica Nagel, che oggi vive a Lugano ed è quasi centenaria, non se lo ricorda. Ma la sorpresa è che, l’anno successivo, Natalia cede al fascino di Salvatore Quasimodo, per il quale perde la testa in una relazione clandestina di quattro brucianti mesi. A distanza di molti anni dirà a un’amica molto più giovane, Marina Ceratto, compagna in quel periodo di Cesare Garboli, di essere stata così presa del poeta da faticare enormemente a staccarsene, persino dopo le nozze con Maria Cumani. Il 26 febbraio del ’94 (Natalia è morta da tre anni, Quasimodo da ventisei) il Corriere della Sera fa uno scoop, rivelando l’amore segreto fra i due protagonisti della letteratura italiana. Sebastiano Grasso aveva avuto dal figlio del poeta, l’attore Alessandro, un mucchietto di lettere di Natalia a Quasimodo, che la giovane scrittrice gli inviava al Conservatorio di Milano, dove lui insegnava, perché non finissero nelle mani della Cumani, con cui viveva e che avrebbe sposato alla fine dell’anno. Sono testimonianza di un aspetto fragile, arreso e molto sensuale della futura autrice di Lessico famigliare che ritroviamo in tanti suoi personaggi femminili capaci però anche di imbizzarrite rivolte. Insomma, l’anglista Gabriele Baldini, con la sua travolgente esuberanza, la cultura sterminata, il celebre humour, la passione per il cinema e per il teatro, la tenerezza allegra verso i figli di lei, apre davvero nella vita della scrittrice un periodo nuovo che sarà pure molto fecondo sul lato creativo. Il matrimonio è celebrato a Torino nel 1950 nella chiesa di fronte all’appartamento di via Pallamaglio (quello di Lessico). Nel decennio successivo la Ginzburg scrive opere importanti, come i romanzi Tutti i nostri ieri e Le voci della sera, i racconti lunghi Valentino e Sagittario. Intanto mette a punto una voce sempre più precisa, che cerca un’intonazione semplice e apparentemente sciatta, che non si cura di ripetizioni, anzi sembra cercarle, che intona dialoghi essenziali e si serve di sgrammaticature colloquiali per accendersi improvvisamente in triple, quadruple aggettivazioni, quasi a smentirsi. 

Contemporaneamente scrive per i giornali cercando un suo posto di opinionista «corsara» che diventerà sempre più forte e centrale nel tempo. Illustra questo percorso la raccolta che presenta anche alcuni inediti: Un’assenza. Racconti, memorie, cronache. Uscita adesso da Einaudi per la preziosa cura di Domenico Scarpa, mostra almeno in parte, il complesso itinerario. Un libro destinato non al grande pubblico, che ama soprattutto le opere più mature della Ginzburg, ma imprescindibile per i cultori  e gli studiosi della scrittrice. 

È apparso recentemente anche  un essenziale volumetto di Giorgio Bertone, insegnante di letteratura italiana all’Università di Genova, Lessico per Natalia 

(il melangolo), che, attraverso alcune parole-chiave come «casa, tana, figli, silenzio, autobiografia ecc.», costituisce un’ottima guida alla ricchissima opera, da Lessico a Serena Cruz o la vera giustizia, tutti esempi di espressioni letterarie che sarebbe impervio e improprio definire semplicemente «romanzi». ©                    S. P.

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