Predrag, in manicomio perchè disturba

Predrag, in manicomio perchè disturba

 

Oggi, a 84 anni, lo scrittore Predrag Matvejevic si trova rinchiuso in un ospedale psichiatrico, in stato di segregazione, ma la sua storia parte da lontano. Nel novembre del 2005, lo scrittore bosniaco, nato a Mostar nel 1932 da padre russo e madre croata, viene condannato per ingiuria e calunnia a cinque mesi di carcere e due anni di condizionale. Quattro anni prima, nel 2001, ha pubblicato un articolo su Jutarnji List dal titolo provocatorio «I nostri Talebani», riferendosi a quel gruppo di scrittori serbi, croati, bosniaci che avevano «fomentato l’odio etnico, inneggiando alle guerre patriottiche […]. Bisognava prendere  posizione o tradire se stessi». La risposta non si fa attendere: Matvejevic viene querelato dal poeta ultranazionalista Mile Pešorda, da lui definito «responsabile di crimini di guerra» e condannato dal tribunale di Zagabria. Intellettuale impegnato, già nel 1991, all’inizio della guerra che sconvolgerà l’assetto geopoliticodella Jugoslavia, Matvejevic lascia la Croazia, dove insegna Letteratura francese all’università, ed emigra in Francia. Da lì viene in Italia (dal 1994 al 2008), dove pubblica da Garzanti, fra l’altro, Breviario mediterraneo (1991), Epistolario dell’altra Europa (1992), Tra asilo ed esilio (1998), I signori della guerra (1999), L’altra Venezia (2003), Pane nostro (2010). Con Romano Prodi è consulente per il Mediterraneo nella Commissione europea nel gruppo dei Saggi. Vicepresidente del Pen Internazionale, è anche presidente del comitato scientifico della Fondazione Mediterraneo di Napoli. Come scrittore ha vinto il premio Malaparte (1991), lo Strega europeo (2003) in Italia e il Prix du meilleur  livre  étranger (1993) in Francia. Continua l’insegnamento universitario sia a Roma (Slavistica alla Sapienza) – gli viene concessa la cittadinanza onoraria italiana – che a Parigi (Letterature comparate alla Nuova Sorbona), dove gli viene conferita la Legion d’onore. Nel 2008 Matvejevic decide di tornare a Zagabria «dove il nazionalismo abbaia ma non ha più denti». Nel 2010 l’Unesco annulla la sentenza di condanna che altrimenti sarebbe diventata esecutiva, non avendo Matvejevic fatto a suo tempo appello. «Non andrò in carcere – scrive –. Lo devo all’appello di Le Monde e alla mobilitazione internazionale». Nel 2013, intervenendo a Trieste alla mostra di un artista connazionale, lo scrittore critica la Croazia e la Capitale in cui risiede: «Sono deluso, speravo in uno sviluppo rapido e concreto, invece ho trovato un Paese povero, con una vita sociale inesistente e poche prospettive, nonostante l’ingresso nell’Unione Europea». Più volte al centro di polemiche con Zagabria per le sue posizioni contro ogni integralismo e iper-nazionalismo, Matvejevic ha avuto in Boris Pohar uno dei suoi più strenui difensori. Due annotazioni. La prima per dovere di cronaca: quando nel 2005 il tribunale di Zagabria condanna lo scrittore, la Croazia inizia i negoziati per entrare a far parte dell’Unione Europea, bypassando una delle norme fondamentali sulla libertà d’opinione. La seconda riguarda la civiltà occidentale nel suo insieme, i valori di cui si è fatta paladina: non è accettabile che uno scrittore e uomo di grande cultura politica venga ridotto in schiavitù in un ospedale psichiatrico di Zagabria, il «Godan dom», sembra per una grave forma di neuropatia, nonostante presenti ancora lucidità di pensiero. Ecco perché, nel febbraio 2016, Il Piccolo di Trieste pubblica una lettera-manifesto per candidare lo scrittore bosniaco al Premio Nobel per la letteratura; sottoscritta da oltre sessanta fra scrittori, giornalisti e altri intellettuali. Tra essi, Claudio Magris, Folco Quilici, Silvio Perrella, Maurizio Scaparro. «Predrag Matvejevic – è detto – rappresenta la sintesi dell’Europa, anche dell’Est, che si riconosce nel Mediterraneo e nella sua storia: nella sua vita, nella sua famiglia, nella sua opera si ritrovano quasi tutte le etnie, le religioni, le nazioni e le culture che oggi, come ieri, qualcuno vuole trasformare in ragioni di conflitto». 

 

 

 

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