Questioni di lingua con Sergio Romano: Anglicismi e mulini a vento

Questioni di lingua con Sergio Romano: Anglicismi e mulini a vento

«L’inglese al posto dell’italiano?» Così il Pen Club Italia intitolava un’ampia sezione del numero 26-27 (gennaio-giugno 2014) commentando la notizia dell’imposizione – da parte del Politecnico di Milano – dell’inglese quale unica lingua di cultura ai livelli più alti del curriculum universitario. Italianisti e costituzionalisti, architetti e politologi proponevano in quelle pagine un’articolata argomentazione in contrasto con la scelta del Senato Accademico milanese, rivendicando la centralità della lingua italiana per la nostra cultura; centralità ora confermata da una sentenza della Corte Costituzionale.

 di Segio Romano

Un linguista peruviano di origine italiana, Gabriele Valle, teme che la lingua italiana stia divenendo un itanglish, vale a dire una pasticciata combinazione di parole italiane e inglesi, molto simile al pidgin degli asiatici. Di questo passo, secondo Valle, gli italiani si sbarazzeranno del loro patrimonio linguistico per parlare una sorta di creolo coloniale anglo-italiano che manderà la loro lingua in soffitta, dove sarà parlato soltanto da vecchi eruditi e imparruccati filologi. In un libro apparso presso le edizioni Reverdito con una bella prefazione di Tullio De Mauro, Valle corre in nostro aiuto proponendo 500 anglicismi tradotti in italiano sul modello spagnolo: da abstract a zoom. Il metodo adottato non è privo di una certa logica. L’italiano e lo spagnolo si assomigliano e sono soggetti alle stesse contaminazioni linguistiche, ma lo spagnolo è molto più diffuso e veicolare dell’Italiano. Non è tutto: la Spagna ha una Reale Accademia, fondata nel 1713, cui fu dato il compito di preparare un dizionario della lingua castigliana composto da sei volumi e apparso nell’arco di tredici anni a partire dal 1726. Da qualche generazione ormai la Reale Accademia lavora con le Accademie latino-americane per «sostenere la lingua spagnola in modo che il suo continuo adattarsi alle necessità dei parlanti non ne intacchi l’unità». Non è sorprendente che la sua battaglia contro gli anglicismi sia stata più fortunata ed efficace di quella mai tentata in Italia. La situazione non è troppo diversa in Francia dove tutti i membri della Académie Française lavorano insieme, nel corso di un incontro settimanale, per ripulire la lingua nazionale dagli anglicismi e altri barbarismi o per fissare norme ortografiche. I francesi devono all’Académie una geniale traduzione di software (logiciel), ma anche la decisione, quasi sempre molto sofferta, di avallare gli usi popolari quando diventano difficilmente modificabili. Una delle ultime questioni risolte dall’Académie è la successione delle e accentate nella parola événement. La tradizione vorrebbe che la seconda «e» avesse un accento grave (è), ma gli accademici hanno constatato che nell’uso corrente era ormai tenacemente acuta (é) e hanno deciso di piegarsi alla volontà popolare. In teoria niente vieta all’Italia di fare altrettanto. Non abbiamo più una Accademia nazionale (ha vissuto per quindici anni fra il 1929 e il 1944), ma abbiamo l’Accademia della Crusca che è madre di tutte le accademie linguistiche esistenti (fu fondata nel 1585) e l’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603. La prima in particolare nacque per la compilazione di un vocabolario che ebbe la sua prima edizione a Venezia nel 1612 e ospita oggi L’Opera del Vocabolario, un Istituto del Consiglio nazionale delle ricerche. Perché non affidare a una di queste istituzioni il compito di vigilare sulla lingua e di sostituire gli anglicismi o altri barbarismi con parole coniate se necessario dai maggiori linguisti italiani? Vi sono almeno due difficoltà. La prima, paradossalmente, è che questa operazione è già stata fatta in tempi e modi che suscitano oggi qualche perplessità. Negli anni del regime fascista, la difesa della lingua e la lotta agli esotismi divennero una politica nazionale e furono affidate all’Accademia d’Italia. Quando ha trattato questo tema in occasione di un convegno organizzato nel febbraio del 2015 presso l’Accademia della Crusca, il suo presidente, Claudio Marazzini, ha ricordato che il risultato di quella pulizia linguistica fu ineguale. In alcuni casi la sostituzione della parola straniera con una nuova parola italiana fu bene accolta: regista invece di regisseur, aerodinamico per airlined, ammarraggio per amerissage, briscola e asso per atout. In altri casi la parola straniera e la parola italiana sono riuscite a convivere: basket e canestro, budget e bilancio, cargo e nave da carico. Ma in altri casi la parola è stata respinta dai gusti popolari. Non hanno attecchito, per fare soltanto due esempi, né arlecchino per cocktail, né brioscia per brioche. La seconda difficoltà è ancora più difficilmente superabile. Esiste una nuova finanza, creata tra Wall Street e la City, che ha generato un numero difficilmente calcolabile di parole nuove. Potremmo cercare di tradurle se queste parole non fossero diventate pezzi indispensabili di un gergo internazionale. È già accaduto in altri tempi a nostro vantaggio per discipline e mestieri, dall’arte alla musica, in cui gli italiani erano particolarmene versati. Ma le parole dei nuovi gerghi, grazie alla globalizzazione e alle nuove tecnologie della comunicazione, circolano oggi sulla rete con una velocità enormemente superiore a quella di qualsiasi prestito linguistico del passato. Non è tutto. Anche il bilinguismo o addirittura il trilinguismo sono considerevolmente aumentati. Forse dovremo continuamente ricordare a noi stessi che alcune battaglie possono essere vinte e altre, contro i mulini a vento, devono essere lasciate a Don Chisciotte. ©

 

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