Ma «la Nanda» era spia della Cia?

Ma «la Nanda» era spia della Cia?
in un libro per il centenario della Pivano

di CARLA MARIA CASANOVA

Alvaro Strada ha una forte inclinazione per la ricerca. Meglio, per l’inchiesta. Diciamola tutta: per il thriller. La notizia non gli basta. Subito indaga su chi, che cosa, come e quando. Soprattutto perché. Che sarebbero poi i cinque punti cardinali del giornalismo. Strada non è un vero e proprio giornalista, anche se di giornalismo s’intende a fondo, per aver esercitato per trent’anni la professione di correttore di bozze al Corriere della Sera. Però è scrittore. Leggere i testi degli altri forse gli ha giovato per affinare il suo stile, per evitare errori. Ma le sue letture, da sempre, veleggiavano su altre quote. Dopo aver digerito i grandi classici (da Virgilio a Manzoni) lo ha attratto la letteratura sudamericana (è laureato in lingua e letteratura ispanica), poi quella americana (Steinbeck, Faulkner, Henry Miller, Hemingway). Siccome i giovani anni di Alvaro coincidevano con l’irruzione in Italia degli autori americani di poi, per intenderci quelli della Beat Generation, è con quelli che si è trovato a confrontarsi. A questo punto acquista particolare rilevanza l’incontro con Fernanda Pivano. 

Per ricordare il centenario della nascita di «Nanda» (1917-2009), Alvaro Strada ha già scritto un piccolo libro: America amica-nemica. Ora il personaggio viene riproposto in una veste approfondita, Ma rimangono tante domande. Alvaro Strada ha conosciuto bene Fernanda Pivano. Un’amicizia di circa 35 anni. E ne ha scritto ancora. Il suo ultimo libro (La traduttrice, Edizioni A& B, pp. 144, € 14) parla della donna, della letterata e della vicenda, per alcuni lati oscura, della sua vita e del ruolo che si è trovata a coprire nel movimento della Beat Generation, da molti ritenuto lo sbocco inevitabile e spontaneo di una nuova generazione disinibita e allegrona (mica sempre, bevevano e fumavano un po’ troppo). Invece, pare esser stata una colossale manovra «sociale» messa in atto dall’America per fini e interessi ben ponderati: materia prima più che allettante per l’»investigatore» Alvaro Strada. Difficile prenderlo in fallo. Conosce dati e date, nomi, interessi, motivazioni, fili rossi che conducono a deducibili certezze. La scrittura puntigliosa e precisa, il vocabolario scelto ed elegante ne fanno una lettura gradevolissima. E poi c’è tutta questa suspence che avvince. Cosa ci sarà ancora da scoprire su Fernanda Pivano, musa – suo malgrado – della Beat Generation? Ed ecco il thriller. Tanto per cominciare, di nomi non se ne fanno. Né di Strada (occulto narratore), né della Pivano (occulta protagonista), né di tutti gli altri che attraversano la sua strada, eccezion fatta per alcuni di dominio pubblico e inevitabile (vedi Hemingway o Olivetti) nominati comunque con sufficiente distacco da poterli credere quasi incidenti di percorso, appartenenti a un’altra storia. E allora? L’unica soluzione è fare una chiacchierata con l’autore. 

Strada, quando ha conosciuto «la Nanda»?

Nel 1974, casualmente. Il mio amico Ernesto Milani, caposcalo di Canadian Air Lines alla Malpensa, doveva recapitarle un biglietto aereo nella sua casa milanese. Lo accompagnai, senza sapere da chi fosse diretto, finché lessi sulla 

targhetta della casa – via Manzoni 14 – il nome Pivano. Naturalmente drizzai le orecchie, perché la persona mi era nota. Non fu un intrattenimento di lunga durata. Ricordo che Nanda, dandomi subito del tu come faceva con tutti, chiese, confondendo il nome con il cognome: «Sei parente di Corrado Alvaro?» Mi chiese anche il numero di telefono e qualche giorno dopo mi chiamò, lasciandomi di nuovo un po’ stupito, ma anche lusingato. Poi cominciammo a vederci.

Un colpo di fulmine?

No di certo. Per lei avevo una grande venerazione. Era ancora un’icona, per la nostra generazione. Nanda, però, era in piena crisi per la fine del rapporto con il marito, Ettore Sottsass. Da tempo vivevano separati in casa. Anche professionalmente era per lei un periodo difficile. L’avevano tradita o lasciata tutti quanti: Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli. Ed erano spariti anche i giovani che l’avevano idolatrata. Quasi tutti si erano dati alla politica.

Perché le case editrici le avevano voltato le spalle?

Con Mondadori, c’era stato il «caso» del poema Urlo di Allen Ginsberg, considerato il numero uno della Beat Generation. Ma quel libro, che lei si era proposta di tradurre dopo il successo delle 360mila copie vendute in Usa, era di una banalità immonda, con un turpiloquio, specie per allora, inaccettabile in Europa. Mondadori impose la censura su una parola sì e una no. Lei traduceva cercando di mitigare la violenza dei termini, chiedendo ogni volta il permesso a Ginsberg, il quale s’infuriava. Nanda impiegò alcuni anni per quella traduzione. La sua stella nel mondo dell’editoria, incominciò a declinare per quasi un decennio.

Ma chi gliel’aveva fatto fare alla Pivano di diventare la suffragetta della Beat Generation?

Vi era stata introdotta attraverso i tre «capi»: Ginsberg, il suo amico Peter Orlovsky (bellissima la raccolta delle loro lettere d’amore) e Gregory Corso, un energumeno esaltato che le piombava in casa alle due di notte, ubriaco, con le richieste più assurde. Le spillò anche dei soldi. Lei si lamentava molto, eppure, traducendo Il matrimonio, una delle più celebri poesie di Corso, lo definì «insolente al di là del sopportabile e strafottente nella più assoluta imprevedibilità» aggiungendo: «Qualunque cosa abbia detto o scritto ha sempre rivelato il dono di non dire mai una sciocchezza». Corso (madre abruzzese e padre calabrese) era innamoratissimo dell’Italia, tant’è che aveva disposto di essere sepolto a Roma, accanto a Percy Bysshe Shelley, nel cimitero cattolico al Testaccio, dove è sepolto anche John Keats.

Come compare Charles Bukowski, il «santo bevitore», accanto alla Pivano?

Fu l’ultima sua «scoperta». Un erotomane che sapeva solo di cavalli e di alcol. Alcol, soprattutto. Il motto di Bukowsky, esperto nella scrittura pseudo-hemingwayana con la qualifica di «sporca», era: «Umanità, mi stai sul cazzo da sempre». Nemmeno eccessivamente spiritoso. Questo il nuovo beniamino della Nanda, la quale, all’inizio, diceva prostituta perché puttana le sembrava troppo volgare. Ma oramai l’America le aveva assegnato quella parte, e lei andò verso un mondo che non era il suo. Aveva però anche dei vantaggi, per esempio i molti viaggi intorno al mondo, a spese degli Usa.

Continua a non risultarmi chiaro il gioco Usa. Questa Beat Generation se la potevano tenere in casa o semmai lasciarla arrivare in Europa per conto proprio, quando sarebbe stato il suo momento. Occorreva proprio una pedina, e perché la Pivano, per portare avanti questo gioco?

La grande letteratura americana era finita. Occorreva qualcosa che le desse nuovo slancio, nuovo mercato. Qualcuno che la portasse in Europa. La Pivano, giovane traduttrice avallata da Pavese, sembrò il personaggio giusto. Così, la Nanda ha fatto il doppio gioco, forse anche ingenuamente, pedina di un disegno più grande di lei, di cui non conosceva nemmeno la portata. Nanda spesso ha sostenuto cose che non condivideva per niente, così come quello strano doppiogioco politico destra-sinistra. L’hanno tacciata di comunista, cosa che lasciava credere ma che non è mai stata .

Una parentesi sul nome di Pavese. Si sa che Pavese più di una volta chiese alla Pivano di sposarlo, e lei sempre tergiversò, Poi sposò Sottsass. Ma col suicidio di Pavese, Fernanda c’entra qualcosa?

Pavese era stato un po’ il suo Pigmalione. Poeta, lui voleva fare di lei una poetessa. Aveva cominciato a tradurre un poeta americano e chiese alla Pivano di continuare la traduzione, nonostante lei non fosse molto ferrata in inglese. Pavese correggeva i testi, le procurò un contratto col suo editore, costruì il libro e da Roma, un giorno, le scrisse che il volume era uscito. In copertina, c’era il nome di Nanda. Poi Cesare, più volte, le chiese di sposarlo, ma venne respinto. L’ultimo incontro era avvenuto a Torino, per strada (lei era con Sottsass). Pavese le aveva chiesto di telefonargli. Lei non lo fece, forse per distrazione, forse temendo di essere ancora assillata con proposte di matrimonio. Fatto sta che, poco dopo, Pavese si suicidò, a Torino, nell’albergo Roma, sito in faccia al bar dove era solito incontrare la Pivano. «Se l’avessi chiamato – diceva Nanda – forse sarei riuscita a dissuaderlo». Ma Pavese prima o poi avrebbe messo in opera il suo disegno. Era, come si dice, una natura depressa, un «candidato» al suicidio.

 Fernanda e i servizi segreti americani. L’avevano «arruolata» per propagandare la letteratura made in Usa? 

Nell’immediato dopoguerra gli Usa davano molti aiuti alle case editrici che pubblicavano autori americani. Materie prime come la carta e anche denaro. E agli scrittori famosi, che facevano opinione, procuravano lauti contratti-premio. Molti si improvvisarono traduttori dall’inglese. In realtà le traduzioni le faceva una signora anonima (la cui identità venne fuori a distanza di tempo: Lucia Rodocanachi) e loro si limitavano a cambiare qualche parola e a mettere la propria firma. Le agenzie spionistiche usavano ragazze («addette culturali») e uomini in divisa. La Pivano venne prima avvicinata da una donna, capitano dei Servizi speciali, che le procurò un contratto con la radio ed altre collaborazioni ben pagate a varie riviste. Successivamente, il capitano venne sostituita da un ufficiale americano che fece una corte serratissima alla Pivano e che, alla fine, lei addirittura sposò (un «matrimonio di guerra»), senza sapere che l’uomo aveva già una famiglia regolare negli Usa. Poco dopo, l’agente segreto sparì con i documenti delle nozze, lasciandola nubile e libera. Lei ne fa un fuggevole accenno nei suoi Diari, ma nemmeno il suo secondo marito, Ettore Sottsass, sapeva di questo matrimonio, come lui stesso conferma nelle memorie (Scritto di notte, Adelphi). 

 Quando Hemingway venne in Europa, la Cia usò la Pivano per controllare lo scrittore che, già dalla guerra di Spagna, era sospettato d’essere un comunista?

Nanda aveva già tradotto un paio di libri di Ernest, e quando lo scrittore arrivò in Italia, lei lo raggiunse a Cortina. Seguì una grande amicizia. Qualcuno sussurra che ci sia stata anche una relazione amorosa. Certo la comunanza con Hemingway spinse molti intellettuali italiani a cercarla, salvo poi allontanarsi dopo il «suicidio» dello scrittore, nel ’61. Vittorini, addirittura, pregò Nanda di chiedergli la prefazione per un suo romanzo tradotto in America. E l’ottenne.

Ne La traduttrice lei parla di un tentativo di avvelenamento che, molti anni dopo, la Pivano avrebbe subito in America. Che cosa c’è di vero?

Me lo raccontò lei nel 2004, rientrando in Italia. Disse che, a un ricevimento, qualcuno che non conosceva le aveva portato dal buffet un piatto di pesce crudo. Lei era in carrozzella, perché, molto debilitata e non si reggeva a lungo in piedi. Divorò il pesce e stette malissimo. Venne ricoverata al St. Luke’s Roosevelt Hospital di New York con chiari sintomi di avvelenamento. I medici volevano a tutti i costi operarla subito, pretendendo da parte dell’amica italiana che l’accompagnava un’autocertificazione firmata che scagionasse il St. Luke’s da qualsiasi conseguenza in caso di decesso perché – dissero – la ricoverata era anziana e avrebbe potuto non sopportare l’intervento. L’amica si rifiutò di firmare, chiamò d’urgenza il medico italiano della Pivano, Valerio Di Carlo, che, con un autentico tour de force arrivò in aereo, riportò l’infortunata in Italia e la fece ricoverare al San Raffaele. Nanda non fu operata e sopravvisse. Mi assicurò che molti particolari di questa avventura erano troppo sospetti per non nascondere qualcosa di losco. D’altra parte anche a Milano la sua casa fu a lungo guardata a vista da due individui che sparirono solo quando lei traslocò in piazzetta Guastalla. 

Nel libro si parla anche di un presunto omicidio di Ernest Hemingway e di Adriano Olivetti. É frutto di fantasia?

A Hemingway vennero attribuite intenzioni suicide che erano una montatura. Inoltre, pur convalescente, stava ultimando uno dei suoi libri migliori, Festa mobile, e passava un periodo di rinnovata vena. Ma la cosa più strana sta nella dinamica del «suicidio». Delle due persone che videro il corpo dello scrittore morto, Carlos Baker (l’unico biografo autorizzato dalla famiglia) riferisce che il colpo era stato sparato in fronte, mentre secondo Hotchner si sarebbe sparato in bocca. Veramente singolare che non venne fatta l’autopsia; che il fucile, una doppietta usata per il tiro a volo, fu sequestrata dallo sceriffo che la trattenne per 15 giorni senza rilevare le impronte digitali sull’arma, poi bruciata dalla famiglia di Hemingway con la fiamma ossidrica per poi seppellirla in un luogo segreto. Lo scrittore Giuseppe Recchia avanzò l’ipotesi che l’autore di Addio alle armi fosse stato assassinato da Mary, la (quarta) non amatissima moglie. Probabilmente Hemingway era ritenuto sospetto dalla Cia per avere avuto contatti con emissari russi. Non per niente si era rifugiato a Cuba e non si muoveva più da lì.

Che cosa pensava la Pivano in merito?

Qui c’è un’altra stranezza. Certamente fu molto scossa dalla notizia ed anche lei nutrì dei dubbi sulla versione del suicidio. Lei ricordava che Hemingway le diceva sempre che suicidarsi – cosa che aveva fatto suo padre – fosse una manifestazione di vigliaccheria. Strano anche che nei libri su Hemingway – e neppure in Baker, il biografo più attendibile dello scrittore – il nome della Pivano non compaia mai. Ora, se erano così amici, doveva pur risultare da qualche parte.

Gelosia, diciamo «professionale»? Oppure un veto a citare la Pivano da parte della moglie Mary, la quale gelosa lo era veramente?

Sui rapporti intimi di due persone è molto difficile poter dare certezze, a meno di non cogliere gli interessati, come si dice «sul fatto». Naturalmente anch’io a volte glielo avevo chiesto, ma da lei non uscì mai alcuna «confessione». Non perdeva occasione per civettare con i giornalisti «Adesso mi chiederete se io sono stata a letto con Hemingway, mi piacerebbe poter rispondere di sì, ma…». Da quello che mi risulta, la Pivano ed Hemingway si incontrarono meno di una decina di volte. Le fotografie che li ritraggono insieme sono quasi tutte state scattate da Sottsass. Nanda fu ospite di Ernest a Cuba, alla Finca Vigìa, nel 1956, ma sotto agli occhi della moglie arpia e l’ultima volta che vide lo scrittore prima che lui si imbarcasse per sempre per l’America, nel 1960, a Nervi, all’Hotel Savoy (nella hall dell’albergo c’è ancora una targhetta che lo ricorda), Nanda ci andò con sua madre!

Però dovrebbe esserci un cospicuo epistolario Hemingway-Pivano.

«Ci scrivevamo ogni tre giorni» mi raccontava Nanda ma qui molto deve essere andato perso, a parte quello che lei disse di aver bruciato, forse perché compromettente. Quando la Pivano consegnò tutto il suo materiale alla Fondazione Benetton, le lettere dello scrittore a lei dirette erano solo venti.

E per quanto riguarda la morte di Olivetti?

Qui i moventi dell’omicidio sono più che plausibili. Adriano Olivetti aveva elaborato, primo al mondo, il progetto di un Pc da tavolo. Quando egli morì sul treno per Losanna, la sua cartella con i progetti non fu trovata. Il suo collaboratore, l’ingegnere italo-cinese Mario Tchu, l’unico che fosse al corrente dei dettagli della ricerca, l’anno dopo ebbe un incidente d’auto poco chiaro. I progetti erano stati richiesti insistentemente dall’America, che temeva potessero essere venduti all’Unione Sovietica o ad altro Stato. Vennero realizzati dopo molto tempo da un gruppo di dipendenti che, ritrovati alcuni disegni, produssero il famoso calcolatore Programma 101, primo Pc da tavolo, venduto su larga scala internazionale. Ma la Olivetti non si risollevò dalla gogna industriale cui venne sottoposta, e le sue parti smembrate sono state vendute a multinazionali americane. 

É normale tutto questo? © 

C. M. C.

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