Ritratti come scrittura

Ritratti come scrittura
di SEBASTIANO GRASSO

Ritratti. Ma quanti ne ha fatti Scianna in sessant’anni? Migliaia, credo. Quasi sempre pubblicati («Prima o poi tutto finisce in un libro», diceva Alberto Savinio). Per Ferdinando, il ritratto fotografico è un’altra forma di scrittura. Che va di pari passo con i suoi racconti orali. Ogni tanto lo stuzzico per risentire quelli che mi divertono di più, anche se li sento per l’ennesima volta. Come quando, sedicenne, confessa a suo padre che da grande vuole fare il fotografo. «E che mestiere è?» gli risponde Baldassarre. Negli anni Sessanta, a Bagheria, come in altri centri siciliani, di fotografi ce n’è solo uno. L’insegna dice: «Premiato studio fotografico Coglitore». Premiato da chi e perché, non si sa. Così come non si sa il nome del fotografo, a parte la grande C che campeggia nella parte bassa dei ritratti. «Mi ha rovinato pantaloni e scarpe», grida qualcuno. Battesimi, cresime, matrimoni: foto di bambini e di giovani. Di vecchi, neppure a parlarne: a parte il fatto che il lampo a magnesio può «rubare l’anima», è una questione di scaramanzia: infatti prima o poi potrebbe servire per la vetroceramica da mettere al camposanto, accanto alla croce di marmo. Allora è meglio evitare. Così man mano che il Signore chiama, il «premiato» Coglitore fotografa il morto e sul negativo gli disegna gli occhi aperti: «Non pare vivo?» dice sornione ai parenti. Ma, abituato a «resuscitare i morti», Coglitore finisce col dare un po’ l’aspetto di morti ai vivi. Anzi, «ammazza i vivi», sussurrano in paese. Un imbroglio. Quindi il «Che mestiere è?» di Baldassarre Scianna, che per il figlio sogna un futuro da medico o ingegnere, non è poi tanto campato in aria. Ma Ferdinando, cui la madre regala un’Agfa, si accorge subito che questa non serve solo per comunicare, ma anche per sedurre le coetanee, in un tempo in cui «fra l’uomo e la donna vigeva un’apartheid terrificante». Comunque, invece delle gite scolastiche, il fotografo in erba racconta riti religiosi, tradizioni e contraddizioni, cronache e aneddoti, favole e dicerie. E «miti» locali, come quello «dell’Aurora»: «Dove si fa il miglior caffè del mondo? In Italia. In Italia, dove? In Sicilia. E in Sicilia, dove? A Bagheria. E a Bagheria, dove? Al bar Aurora», chiosava Renato Guttuso. Ritratti di gente comune, colta per strada, quelli di Scianna. Ma anche di modelle, attrici, artisti, scrittori e di animali (quello di Blake con me, l’ho posto sulla sua tomba, a Ponte dell’Olio).

Ritratti come racconti, s’è detto. Ma anche come racconti veri, scritti. Come Tre mazzi, che profuma di favola, che certamente sarebbe piaciuto a De Sica e Fellini, oppure a Evtushenko. Narra di un bambino ricco cui piace umiliare un coetaneo povero: «Cos’hai mangiato, oggi?», gli chiede ogni qualvolta lo incontra. E il povero – che si nutre esclusivamente di verdure selvatiche raccolte dalla madre nei campi – man mano risponde: indivia, cicoria, lattuga. E l’altro: io, carne ripiena, pollo arrosto, aragosta. Quando il bambino povero, mortificato, ne parla alla madre, questa gli suggerisce per la volta successiva di rispondere: «Filetto». «Davvero? – commenta il bambino ricco – e quanto ne hai mangiato?». Il bambino povero esita, poi con sicurezza dice: «Tre mazzi». Quando incontro Ferdinando per strada, mi accorgo che non è mai da solo. L’altro giorno, appena uscito dal suo studio milanese di via Giannone, lo si vedeva in giro con i compaesani Renato Guttuso, Ignazio Buttitta e Giuseppe Tornatore da una parte; e con i suoi maestri Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Leonardo Sciascia, Henri Cartier-Bresson e Dominique Fernandez dall’altra. Spettacolo non insolito. Insieme, lo hanno sempre accompagnato per quasi mezzo secolo e, insieme, continuano a farlo. Vivi o morti, non ha importanza. Ce li ha tutti impressi negli occhi azzurro-verdi e nel cuore. Talvolta ad essi si aggiunge Stendhal, nonostante fra lui e l’autore de La certosa di Parma ci siano un paio di secoli di distanza. Ferdinando gli ha chiesto aiuto nei momenti in cui ha avuto qualche dubbio che la propria scrittura potesse diventare noiosa (mai successo, comunque, essendo questa frizzante come l’idrolitina). E i buoni consigli sono venuti da letture e riletture del francese. Ecco perché l’ha sempre considerato un amico: non per darsi delle arie, ma perché lo conosce così bene che certi passi li recita a memoria. Talora, mentre passeggiamo, mi piace fargli sempre la stessa domanda anche se so già che mi darà la solita risposta. Un gioco che dura da anni. «Ma la fotografia è arte?». E lui, un po’ distratto dal décolleté di qualche ragazza che passa in quel momento, rovescia i termini della questione: «L’arte è fotografia? Peggio per la fotografia».

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