di SEBASTIANO GRASSO
Letteratura come vita. Già. E Letteratura come vita è la prima cosa che viene in mente, pensando al titolo del saggio pubblicato da Carlo Bo sulla rivista fiorentina Il Frontespizio nel 1938. Come si incastra un concetto simile nella vita di Mario Botta? Beh, forse ricordandosi che, per esempio, è soprattutto la lettura di Morte a Venezia di Thomas Mann a spingerlo ad iscriversi ad Architettura nella città lagunare e farsi inghiottire da calli e campielli che incrociano i canali («Spesso l’acqua riflette il mio sguardo incantato di migrante proveniente da uno sperduto villaggio svizzero e proiettato in un luogo sognato, centro di grandi aspettative – ricorderà –. Affitto una mansarda in Campo della Guerra, al quinto piano di uno stabile dietro San Marco, e ci rimango per i cinque anni degli studi universitari. È piuttosto scomoda: vi si accede attraverso una scala ripida.
Inoltre è freddissima d’inverno e un forno d’estate»). Ma è Giuseppe (Bepi) Mazzariol, direttore della Fondazione Querini Stampalia, da lui conosciuto nel ’64, a trasmettergli la visione umanistica architettura-arteletteratura: uno di quegli incontri che Carlo Bo era solito definire «capitali», in quanto capaci di cambiare un’esistenza. Così come, nel caso specifico, quelli con Le Corbusier («La giovinezza di Botta stupisce il mondo»), con Carlo Scarpa («L’architettura che noi vorremmo essere poesia, dovrebbe chiamarsi armonia, come un bellissimo viso di donna»), con Louis Kahn («Accompagnandolo per la città dei Dogi – scrive Lionello Puppi –, Mario resta incantato da questa “figura messianica della cultura architettonica del XX secolo”») e probabilmente, anche con il siciliano Giuseppe Samonà, figlio della principessa Adele Monroy di Pandolfina, chiamato ad insegnare a Venezia, ad Architettura, dal 1960 al 1971. Cui si aggiungono anche Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, Ignazio Gardella ed altri.
Tutti nomi, questi, che faranno parte dei pilastri della sua biografia. Anche se il primo incontro di Botta con Friedrich Dürrenmatt avviene in casa dello scultore Bernhard Luginbühl nel ’90, sin da giovane Botta ha potuto leggere un paio di suoi romanzi pubblicati a puntate sui giornali. C’è di più: «Ho avuto modo di scoprire anche il suo lavoro pittorico e calcografico» annoterà Botta. Di Dürrenmatt lo affascinavano certamente Greco cerca Greca, tradotto da Mario Spagnol per Einaudi, ma anche La morte di Pitia. «Le parole dipinte di Dürrenmatt – scriverà Botta – conservano un’innocenza propria dell’infanzia di cui noi riconosciamo un immenso bisogno».
L’anno dopo la morte dello scrittore, Botta viene contattato dalla moglie Charlotte Kerr. È possibile costruire un centro che possa accogliere quella pittura e quella grafica che ha affiancato la scrittura? Certamente. Per Botta è una maniera «per saldare, almeno in parte, un debito di riconoscenza che nutrivo verso quel concittadino scomodo che appariva ai miei occhi così svizzero e nel contempo così lontano dalla Svizzera.
I suoi racconti mi avevano entusiasmato e nutrito negli anni più belli della mia formazione». Nasce, così, il Centro Dürrenmatt di Neuchâtel, dove lo scrittore, nel 1952, era stato «attirato dall’annuncio di vendita di una casa con biblioteca incorporata». Sempre negli anni Novanta, Botta incontra lo scrittore e architetto Max Frisch («Romantico, al contrario di Dürrenmatt, più rigoroso, calvinista»). Frisch-scrittore aveva esordito come architetto; e questo entusiasmava Botta perché Max «aveva saputo cogliere gli aspetti umanistici e sociali dell’architettura intesa come specchio del mondo». Lo colpiva «il suo atteggiamento verso il concreto, verso il reale, anche se si sentiva un po’ tradito dal fatto che Frisch si era poi espresso attraverso la letteratura che è l’opposto del tangibile, dell’artigianato. La ricchezza di Frisch sta anche nella consapevolezza che la costruzione letteraria ha bisogno di geometria, ordine, simmetria, spazio». Ho citato Dürrenmatt e Frisch solo per restare in un naturale ambito geografico di due autori che, tra le altre cose, hanno rinnovato il linguaggio del teatro, perché l’interesse di Botta verso la letteratura spazia non solo fra autori contemporanei di Paesi diversi, ma anche di secoli differenti. Lo scrittore descrive un paesaggio? L’architettura ne diventa parte. Si veda, ad esempio, la piazza di Taino, in quel di Varese, creata da uno straordinario artista come Gio’ Pomodoro, scultore-pittorescrittore. Un monumento ad arte, architettura e letteratura. Fa capolino l’artista rinascimentale. «È una vera felicità avere per mestiere la propria passione». Parola di Stendhal. ©