Nella valle dei libri

Nella valle dei libri
di LANFRANCO VACCARI

Dopo tre settimane di lavoro in una società finanziaria londinese, Richard Booth (1938-2019) si accorse che la City era troppo piccola e noiosa per lui – e il mondo un palcoscenico abbastanza grande per contenere il suo ego. Si era appena laureato in Storia al Merton College, Oxford, e soprattutto veniva da una famiglia che poteva provvedere alle sue ambizioni. Il padre, ufficiale della Royal Army, aveva ereditato la tenuta di Brynmelyn, un palazzo neogotico circondato da otto ettari di bosco, a un quarto d’ora a piedi dal centro di Hay-on-Wye, sul fiume che segna il confine tra Galles e Inghilterra. La madre era ereditiera degli Yardley, all’epoca ancora proprietari di una delle più antiche (1770) aziende di cosmetici, fragranze e prodotti di toiletteria: con Twiggy come volto, il marchio sarebbe diventato un simbolo della Swinging London, assieme alle minigonne, Carnaby Street e la subcultura Mod. Così, nel 1962, Booth tornò al paesello e decise di trasformarlo nella «Capitale mondiale del libro usato». Comprò la dismessa caserma dei pompieri e vi aprì la sua prima libreria, The Old Fire Station. Poi il malmesso castello normanno, il cinema, la sede dell’associazione agricoltori, una cappella sconsacrata e un paio d’altri edifici. Per riempirli di libri, si lanciò in uno shopping sfrenato. Svuotò, assicurandosele per quattro soldi, le librerie della nobiltà di campagna inglese, che trovava irresistibile quel suo fare caratterizzato da una socievole eccentricità e da un’aristocratica spavalderia. Andò in America e acquistò a peso intere biblioteche: come ha scritto Paul Collins in un libro su Hay, «da seminari finiti in bancarotta; da Ignoramus incaricati di sovrintendere collezioni di “libri che nessuno legge”; da istituzioni fallite come la Stechert-Hafner di New York (al tempo, una delle più grandi librerie del mondo, ndr); da ricche vecchiette che, morendo, avevano lasciato i loro libri a una progenie semi-analfabeta». È stato durante i suoi viaggi negli Stati Uniti che Booth ha elaborato l’idea di un’economia locale e indipendente. Era il momento in cui si affermavano gli shopping mall, colate di cemento anonime e tutte uguali che svuotavano i centri delle piccole città. Rappresentavano una distopia da combattere, un mondo nuovo da evitare. I libri d’occasione, decise, potevano rappresentare un pugno nello stomaco del capitalismo dominato dalle grandi aziende. Risulta perlomeno dubbio che siano serviti allo scopo. Hanno tuttavia creato un modello, quello dei «villaggi del libro», che si è diffuso in una quarantina di borghi, in una ventina di Paesi, su quattro continenti. Hanno rigenerato, sulla base di un’offerta originale, posti destinati a rimanere dimenticati, sollecitando interessi peculiari e rimettendoli così sulle carte geografiche. Era un’impresa possibile solo a un visionario un po’ folle, appariscente e divertente, stravagante e immaginifico. A un certo punto la sua principale libreria, Richard Booth’s Bookstore, ospitava un milione e 100mila titoli e occupava 15 km di scaffali: tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, il Guinness Book of Records la elencava come «la più grande libreria d’occasione del mondo». Booth girava con una Rolls Royce Silver Shadow i cui sedili posteriori straboccavano di libri, fino al tettuccio. Nel castello, eletto a sua residenza, ospitava memorabili feste. Nel 1977, il 1° aprile, si autoproclamò «re di Hay», con il nome Riccardo Cuor di Libro, e dichiarò l’indipendenza del suo regno dalla Gran Bretagna: sfilò per Castle Street, la strada principale, in testa una corona di cartone e indosso un falso ermellino. Nominò primo ministro il suo cavallo e teneva le riunioni di governo in un pub. I temi in agenda erano risolti da una ruota della fortuna con opzioni tipo «adesso si beve qualcosa, «rimandare alla prossima seduta», «tagliategli la testa». Conferì il titolo di duchessa alla sua amica April Ashley, nata George, che nel 1960 aveva cambiato sesso con un’operazione a Casablanca per diventare poi una modella di intimo per Vogue e un’icona transgender. Tutto questo era a suo modo geniale. Purtroppo, però, fra le virtù di Booth non c’era quella di fare affari. Come ha scritto nella sua autobiografia, Il mio regno di libri, «ho ereditato una fortuna, ne ho fatte due e ne ho perse quattro». Nel migliore dei casi, si dimenticava di pagare i creditori. Nel peggiore, tentava di coprire i debiti con assegni scoperti. Nel 2004, quando venne insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico per i suoi meriti nella promozione del turismo, era ormai proprietario di una sola libreria. Finì per cedere anche quella. Si ritirò in un negozietto di souvenir, dove vendeva la sua paccottiglia regale: passaporti, banconote stampate su carta di riso, bandiere, cd con l’inno nazionale (sul tema della Colonel Bogey March, la colonna sonora del film Il ponte sul fiume Kwai, forse per l’assonanza nella pronuncia inglese tra i due fiumi). Ma quando morì, nel 2019, a 80 anni, il suo lascito era incommensurabile. Anche se sono passate da più di 30 negli anni Ottanta a una ventina, le librerie di Hay-on-Wye attirano oltre 200mila visitatori l’anno. Altri 300mila vengono per il Festival di letteratura e arti, dove per 11 giorni, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, sono in cartellone 650 eventi con protagonisti circa 500 fra scrittori e artisti. Una cittadina-mercato, su un confine fittizio da quasi 750 anni, non solo è stata strappata al declino ma è diventata uno dei più vibranti centri culturali della Gran Bretagna. E, ancora di più, un esempio copiato dall’Austria all’Australia. Ci sono una quarantina di variazioni sul tema definito da Booth «l’insediamento, in un centro abitato situato in una regione pittoresca o turistica, di figure professionali la cui attività dominante è basata sul commercio di libri antichi o d’occasione, di incisioni d’epoca e di tutti i mestieri legati a questi oggetti: rilegatori, cartai, stampatori, illustratori, corniciai...». Ovunque si è sprigionata una curiosa e virtuosa alchimia: oltre che a se stessi, i vecchi libri hanno ridato vita a vecchie campagne che si andavano spopolando, apparentemente condannate a un ineluttabile e progressivo declino. Quando ha finalmente attraversato la Manica, a metà degli anni Ottanta, l’idea del villaggio del libro è atterrata a Redu, nelle Ardenne belghe. È poi stata replicata molto velocemente in Francia, Olanda, Svizzera, Norvegia, Germania, Finlandia, Svezia, Danimarca, Spagna, Portogallo e Bulgaria. È arrivata negli Stati Uniti; in Australia e Nuova Zelanda; in India, Malaysia, Corea del Sud e Giappone; in Sud Africa. Una ventina di borghi si sono associati nell’International Organization of Book Towns (IOB). Altri sono indipendenti. I francesi hanno preferito prendere la strada della Federazione nazionale. Le otto «villes, cités et villages du livre» sono distribuite fra il Nord-Pas-de-Calais e la Linguadoca, la Bretagna e la Lorena, l’Aquitania e il RhôneAlpes, la Borgogna e il PoitouCharentes. Ognuna accoglie fra i 50mila (Montolieu) e i 300mila (Bécherel) visitatori l’anno, a seconda dell’importanza, della localizzazione e della notorietà. Hanno abitanti compresi fra 312 e 5.910, librerie fra tre e 18, botteghe artigiane fra un paio e 23. In genere i villaggi del libro sono sviluppati su tre livelli. Il primo è rappresentato da un’alta concentrazione di librerie indipendenti, che vendono sia modernariato che antiquariato di seconda mano. Il secondo, dai corollari: festival, eventi, conferenze. Il terzo, da attività legate sia all’artigianato grafico (rilegatori, calligrafi, illustratori, cartai, stampatori..., spesso con workshop nelle botteghelaboratori) sia a imprese commerciali più tradizionali (trattorie, agriturismi, hôtel de charme, panetterie-pasticcerie, prodotti biologici a km 0). Ci sono tuttavia delle eccezioni. Lilleputthammer, Norvegia, è un parco-avventura per famiglie e ospita solo librerie per ragazzi. Paju, Corea del Sud, è un insediamento in una piana paludosa bonificata, a una decina di km dalla Zona Smilitarizzata: contiene librerie, caffè-librerie, uffici editoriali e nient’altro. Ci lavorano 10 mila persone dedicate a fattura, pubblicazione, vendita e promozione di libri coreani (ma se ne possono comprare anche in inglese e giapponese). College Street, a Kolkata, India, è considerata il più grande mercato di libri di seconda mano al mondo. Lunga 1,5 km e conosciuta come Boi Para (Colonia di libri), è affollata da bancarelle, librerie tradizionali (fra cui la prima di College Street, fondata nel 1886, e una di proprietà della stessa famiglia da cinque generazioni), editori e istituzioni educative. In questo lungo elenco, l’Italia non compare. In realtà Montereggio, Lunigiana, è affiliato alla IOB dal 2004 pur non avendo le caratteristiche di un villaggio del libro. Ha tuttavia straordinari meriti storici. Da lì partivano, nell’Ottocento, i venditori ambulanti di libri per raggiungere ogni angolo dell’Italia centro-settentrionale. Cominciarono riempendo le gerle che portavano in spalla e passarono poi ai carri trainati dai cavalli. Durante il Risorgimento, importavano dalla Francia i libri proibiti di Mazzini, D’Azeglio, Cattaneo e Pellico (ma anche qualche romanzo erotico). Nel 1952 ospitò la prima edizione del premio Bancarella. Questo buco, questa singolare assenza stanno per essere colmati. Anche in Italia, finalmente, sta per nascere un villaggio del libro. Anzi di più: una Valle dei Libri. L.V.

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