di Marina Giaveri
Nel 1768: mentre aristocratici viaggiatori scendono in Italia per compiere il Grand Tour, alcuni eleganti scrittori scelgono il modello letterario del viaggio per quelle opere satiriche al cui impudente contenuto l’Europa moderna dovrà i suoi caratteri fondanti: dalla laicità all’equilibrio dei poteri, all’abolizione della tortura e della pena di morte. Fra i testi nati nel 1768 dalla penna velenosa dell’elegante Voltaire, vi è per esempio La principessa di Babilonia, i cui favolistici eroi percorrono vari Paesi, commentandone leggi e costumi. Nel IX capitolo, uno dei protagonisti giunge al Regno del Vecchio delle Sette Montagne: «Le gialle acque del Tevere […] gli annunciarono la prossimità di quella città di eroi e legislatori che avevano conquistato e incivilito gran parte del globo. S’era figurato di vedere alla porta trionfale cinquecento battaglioni […]: trovò una trentina di scalzacani che facevano la guardia con l’ombrellino per ripararsi dal sole». Dopo un concerto di cantori castrati, il Vecchio delle Sette Montagne «tagliò l’aria in quattro alzando il pollice, stendendo due dita, piegando le altre due, e dicendo queste parole in una lingua che non era più parlata: "Alla città e all’universo" [Urbi et orbi] Difficile capire come due dita potessero giungere tanto lontano. Presto vide sfilare la corte del padrone del mondo: era composta di gravi personaggi, alcuni in vesti rosse, altri in vesti viola. E quasi tutti gli facevano gli occhi dolci e si dicevan l’un l’altro "San Martino, che bel ragazzo! San Pancrazio, che bel fanciullo!"». Durante il suo soggiorno, il protagonista apprende come il Regno dreni le risorse di molteplici Paesi tramite una rete di «quattro o cinquecentomila profeti divini», cui obbediscono persino i re: «Una delle prerogative del Vecchio è infatti di aver sempre ragione». Così, nel 1768, Voltaire descriveva la Roma del Papa, cui riservava il corrosivo epiteto che alludeva non solo ai Sette colli, ma a quel Vecchio della Montagna di cui Marco Polo aveva narrato l’orrenda storia: capo carismatico di una setta ereticale, i cui fanatici adepti (gli Hashishiyyun) avevano seminato il terrore dalla Siria alla Persia. Mentre i vocabolari europei guadagnavano la nuova parola, «assassini», nelle pagine di Voltaire si disfaceva il modello della devozione fanatica e dell’asservimento all’autorità religiosa, grazie ai piaceri dell’ironia e della razionalità critica. Il motto di Voltaire Écrasez l'infâme («Schiacciate l’infame!»), potrebbe tradursi oggi con la recente formula francese Je suis Charlie.©