Il presidente del Pen, Wells, al governatore di Granada: «Dov’è Federico?»

Il presidente del Pen, Wells, al governatore di Granada: «Dov’è Federico?»

 

Il presidente del Pen, Wells, al governatore di Granada: «Dov’è Federico?»
«Lo ignoro», risponde l’ex colonnello Espinosa. La posizione del sodalizio internazionale al Congresso di Parigi.


di Gabriele Morelli
La notizia della fucilazione di Federico García Lorca, avvenuta il 17 o 18 agosto del 1936, si diffonde fra l’incredulità e la costernazione di quanti sembravano quasi abituati, in quei tragici giorni, ad assistere alle terribili violenze causate dal colpo militare di Franco che apriva il periodo della guerra civile spagnola. Lo scrittore inglese Herbert George Wells, presidente del Pen, il 13 ottobre invia un telegramma al colonnello Espinosa, governatore di Granada, per avere notizie sul poeta. Risposta: «Ignoro il luogo dove si trova don Federico García Lorca». Due giorni dopo, il quotidiano El Sol di Madrid, città ancora in mano ai repubblicani, commenta in modo caustico la risposta dell’alto militare: «L’ex colonnello Espinosa dice di non conoscere il luogo dove si trova García Lorca. Non sa nulla. O meglio, non vuole sapere nulla; ciò disgraziatamente sembra confermare l’infame morte del poeta spagnolo. I nostri nemici, che lo sono ugualmente della cultura, si stringono nelle spalle dinanzi al fatto mostruoso. Rispondono in modo evasivo alle richieste dello scrittore inglese, che in questo caso rappresenta la coscienza del mondo civile. Ma, in realtà, a un militare della casta pretoriana, che cosa importa della civiltà e della poesia?». Il Congresso del Pen, tenuto a Parigi nel 1937, ricorda la figura di García Lorca ed esprime una vigorosa condanna contro il suo assassinio, di cui è accusato il regime franchista. Quindi, rende omaggio ai combattenti accorsi in Spagna, a difesa della democrazia. Sorpreso e contrariato dalla violenta reazione della stampa, il governo franchista cerca di neutralizzare l’accusa, facendo circolare, come diversivo, la notizia della fucilazione da parte marxista di alcuni noti scrittori. Il 19 agosto 1936 El Correo de Andalucía, organo di stampa dei ribelli nazionalisti, informa che il commediografo Premio Nobel Jacinto Benavente, i fratelli scrittori Quintero, il pittore Ignacio Zuloaga, Pedro Muñoz Seca e Ramiro de Maeztu erano caduti «víctimas de los infames crímenes marxistas». Esecuzioni false (eccetto gli ultimi due che furono uccisi nei mesi successivi), ma la cui diffusione serviva evidentemente a contrastare l’ondata generale di protesta sollevata dalla stampa mondiale contro l’assassinio di García Lorca. Sempre il 19 agosto, Miguel de Unamuno, nell’apprendere la notizia della morte di Federico dal rettore dell’università di Granada, Salvador Vila, poi fucilato, annotava con grande amarezza nella pagina del suo Diario final: «Che carneficina! Non so quante volte durante il giorno ripeto la stessa frase. Si ammucchiano i morti sul mio tavolo in tale numero che non ho il tempo di contarli». Ancora oggi ci si interroga come fu possibile l’orrendo crimine: Jorge Guillén non aveva forse detto che in caso di rivolta se c’era uno spagnolo che poteva salvarsi questi era Federico García Lorca? Le risposte sono molte e numerosi i tentativi che cercano di spiegare l’accaduto. In primo luogo esiste la versione ufficiale del regime franchista, cui si addebita la responsabilità della morte del poeta, che dopo lunghi indugi esce dal riserbo con una laconica nota, apparsa sull’ABC del 17 settembre 1937: «La semplice verità è che la morte del poeta fu un episodio vile e disgraziato, del tutto estraneo a qualsiasi responsabilità e iniziativa ufficiale». La giustificazione del governo spagnolo trova più avanti un avallo nella discussa monografia Federico García Lorca. L’homme-L’oeuvre (Parigi, Plon, 1956) del critico francese Jean-Luis Schönberg. Con molta disinvoltura e basandosi su una tesi aprioristica, l’autore afferma che l’assassinio di García Lorca sia dovuto a una rivalità tra omosessuali, frutto di un «regolamento di conti fra invertiti». La verità è semplicemente un’altra: García Lorca fu ucciso su ordine del governatore del Governo Civile di Granada, comandante José Valdés Guzmán; cioè fu vittima della repressione franchista che operò con ferocia nella città dopo il pronunciamiento militare. Amico del ministro repubblicano Fernando de los Ríos e disprezzato per la sua omosessualità, García Lorca è considerato «un rojo» (un rosso, un comunista) per le sue idee liberali e la partecipazione alle manifestazioni a favore dell’ideale antifascista, come mostra una foto di gruppo che lo vede in una cena collettiva con il pugno alzato assieme a Rafael Alberti, Vicente Aleixandre, Manuel Altolaguirre, María Teresa León e altri ancora, sebbene in questo caso l’incontro sia da leggersi come omaggio spontaneo all’amico giornalista argentino Pablo Suero, che si congedava dagli amici spagnoli. Un omaggio, del resto, abbondantemente innaffiato da buon vino, come ricordano i testimoni e mostrano i visi allegri nell’istantanea riprodotta a sinistra. Sulla posizione ideologica del poeta a favore della Repubblica – lontana dal dogma marxista rifiutato con forza – esistono le attestazioni della famiglia, suffragate inoltre dai legami di amicizia e parentela con Fernando de los Ríos (Paco, il fratello del poeta, sposa la figlia del ministro). Anche il matrimonio della sorella Concha con Manuel Fernández-Montesinos, sindaco socialista di Granada, rinsalda i vincoli di vicinanza della famiglia di García Lorca con il governo repubblicano. Per conoscere le idee politiche del granadino è inoltre sufficiente ascoltare il racconto, apparso sull’Heraldo de Madrid (6 febbraio 1936), del citato Pablo Suero in visita ai genitori del poeta nell’appartamento madrileno di via Alcalá: «Sono ricchi agricoltori della Vega di Granada – scrive –. Tuttavia sono vicini al popolo spagnolo, si dolgono della sua povertà e anelano l’avvento di un socialismo cristiano». Affascinato dalla personalità della madre del poeta, Suero descrive le preoccupazioni della famiglia di García Lorca alla vigilia delle elezioni politiche: «Se non vinciamo possiamo già lasciare la Spagna! Ci cacceranno, se prima non ci ammazzano!», lamenta donna Vicenta. Sempre la madre di García Lorca, in una precedente lettera del 1° dicembre 1933 inviata a Federico a Buenos Aires, nell’informare il figlio sulla situazione politica spagnola, esprime i suoi timori per– lo scontro in atto tra gli estremisti delle due fazioni e critica la recente politica della destra che considera interessata e corrotta: «Hanno speso milioni – commenta – e hanno fatto le cose più sporche e vergognose che si potessero mai fare». E aggiunge con rassegnato scetticismo: «Staremo a vedere come andremo a finire poiché la cosa è sporca». Lo stesso poeta, in una missiva alla famiglia, sempre da Buenos Aires, alla notizia degli attentati anarchici avvenuti in Spagna contro la coalizione conservatrice della Ceda (Confederazione spagnola della destra autonoma), da poco al potere, manifesta il suo stato di apprensione alleviato dal pensiero dell’esistenza di un’opposizione contro le forze reazionarie: «In questi giorni sono stato molto preoccupato per voi a causa dei disordini anarchici; d’altra parte, però, sono contentissimo perché ciò dimostra che le destre non possono in alcun modo attaccare la Spagna». 1936: ritorno a Granada. Oggi, alla luce della nuova documentazione, possiamo ricostruire gli ultimi giorni del poeta e al contempo chiarire che il suo ritorno da Madrid a Granada nella casa estiva della Huerta de San Vicente, dove egli giunge il 14 luglio per festeggiare l’onomastico del padre, faceva parte di un progetto segreto che prevedeva un viaggio in Messico con il nuovo giovane amante, Juan Ramírez de Lucas (relazione emersa pochi anni fa dopo la morte di quest’ultimo), per unirsi alla tournée teatrale di Margarita Xirgu, la grande interprete di molte opere lorchiane, che reclamava la presenza del poeta. La stessa Xirgu ha dichiarato di aver ricevuto un telegramma di García Lorca che annunciava il suo arrivo imminente. Progetto frustrato dallo scoppio della guerra civile, ma ostacolato al momento dal padre del giovane minorenne che si oppone con forza al viaggio di Juan, al quale Federico il 18 luglio invia una lettera in cui lo esorta ad aver comprensione e pazienza: «Conta sempre su di me – scrive –. Io sono il tuo migliore amico, ti chiedo di essere diplomatico e di non lasciarti travolgere dal fiume. Juan: devi tornare a ridere». E termina: «Io ti penso molto, e tu lo sai senza bisogno che te lo dica, ma in silenzio e tra le righe devi leggere tutto l’affetto che ho per te e tutta la tenerezza che serbo nel cuore». La missiva giunge alla casa di Albacete del giovane poco prima che si interrompano le comunicazioni tra la zona repubblicana e quella nazionalista. Il 17, in Marocco, un gruppo di ufficiali della guarnigione di Melilla si ribella al governo centrale e il 20 la violenza fascista si abbatte con furia su Granada dando inizio a un periodo di feroce repressione con migliaia di arresti, assassinî ed esecuzioni capitali (non meno di cinquemila, è stato calcolato). Nel frattempo Federico, in seguito alle violente perquisizioni di gruppi armati entrati nella Huerta di San Vicente, si rifugia nella casa dell’amico poeta falangista Luis Rosales, dove il giorno 16 agosto viene arrestato da Ramón Luis Alonso, rappresentante della Ceda, e tradotto nella casa del Governo Civile: inutili gli interventi dei fratelli Rosales che protestano e cercano di liberare il poeta. L’ordine di fucilazione è impartito dal governatore José Valdés e, si dice, senza consultare il generale Gonzalo Queipo de Llano in missione a Siviglia, poiché le comunicazioni telefoniche erano interrotte; si può obiettare, però, che funzionavano quelle radiofoniche utilizzate dai comandi militari. È dunque probabile che sia stato Queipo de Llano a confermare l’esecuzione con la nota frase «Dale café, mucho café»: l’ordine imponeva il trasferimento nella Colonia di Víznar e la fucilazione dei condannati.Víznar era allora un piccolo villaggio a circa dieci chilometri a nord di Granada, dove si ergeva il vecchio edificio chiamato La Colonia, trasformato in carcere militare dopo il golpe franchista. Ogni tanto, durante la notte, si apriva la porta d’ingresso e usciva un gruppo di prigionieri guidato dai volontari della Escuadra Negra. Le vittime erano costrette a salire su vecchi furgoni militari che partivano in direzione di Alcafar. Poco dopo si udivano rabbiose scariche di fucile. García Lorca trascorre le ultime ore rinchiuso al pianterreno della Colonia. Comandante delle operazioni militari di Víznar era il capitano falangista José María Nestares Cuéllar: egli ricorda che erano circa le dodici della notte quando venne a svegliarlo il tenente Rafael Martínez Fajardo con quattro prigionieri. Il capitano riconosce García Lorca e, indignato per la sua presenza tra le vittime designate, straccia il foglio ricevuto, ma non può impedire l’esecuzione della sentenza poiché egli era solo il destinatario dell’ordine da eseguire. Incarica pertanto Manuel Martínez Bueso, capo dei servizi motorizzati, di guidare il convoglio e presenziare all’esecuzione per poi riferire. A sostegno di questa versione, tanto il biografo di Federico Ian Gibson, quanto i ricercatori Agustín Penón e Eduardo Molina Fajardo (molto importante la sua documentazione poiché come militante falangista poté accedere a informazioni riservate) presentano una ricca documentazione rilasciata da vari responsabili e testimoni, a partire dallo stesso Ramón Luis Alonso; il quale assicura di essere tornato nella casa del Governo Civile il giorno successivo alla consegna di García Lorca, cioè il 17 agosto, e di aver appreso dal comandante Valdés che il poeta era già stato ucciso. Anche Manuel de Falla, sebbene malato, era accorso presso il governatorato per intervenire a favore dell’amico Federico, ma lo informarono che era troppo tardi. Quella notte a guardia dei prigionieri c’è il giovane soldato José Jover Tripaldi; fervente cattolico, era solito chiedere ai prigionieri in prossimità dell’esecuzione se volessero confessarsi con il parroco del paese oppure lasciare un messaggio ai familiari. Secondo la versione di Tripaldi sono le cinque meno un quarto del mattino quando arrivano le guardie e svegliano i prigionieri. Nel rendersi conto che è arrivata la fine, Federico chiede di confessarsi, ma il prete ha già lasciato la casa. Allora Tripaldi, ricordando la misericordia di Dio, gli suggerisce di dire l’atto di dolore, che però García Lorca ha dimenticato. A questo punto il giovane carceriere inizia a recitare la preghiera mentre Federico, a testa bassa, piangendo, ripete lentamente le parole. Alla fine i due si fanno il segno della croce e si abbracciano. Poco dopo, il poeta, il maestro elementare Dióscoro Galindo González, privo di una gamba, i banderilleros Joaquín Arcollas Cabezas e Francisco Galadí Meral, circondati dalla Escuadra Negra, escono dalla Colonia dove sulla porta attende una macchina che parte in direzione di Alcafar. La macchina percorre un sentiero di alcuni chilometri, poi si ferma. I prigionieri scendono e continuano a piedi finché non giungono vicino a un vecchio ulivo, accanto alla Fuente Grande, dove con i fucili vengono spinti a forza sul pendio di un fossato e lì brutalmente uccisi. Davanti, l’orizzonte della Vega oscillava lievemente nel primo chiarore del mattino. © G. M.

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