di Pierluigi Panza
È morto, durante un viaggio in Honduras (proprio nei giorni scorsi), Harry Wu, il 79enne scrittore, attivista e dissidentecinese che, ancora studente, fu costretto a trascorrere 19 anni nei laogai, i cosiddetti gulag comunisti cinesi dei quali ha fatto conoscere l’esistenza al mondo così come Aleksandr Solzenicyn ha fatto conoscere quelli sovietici. Nato a Shangai in una famiglia agiata, la fortuna di Wu cambiò rapidamente dopo la fine della Guerra civile cinese, quando «il governo sequestrò tutte le proprietà del Paese e fummo costretti a vendere anche il mio pianoforte». Quando il Grande timoniere invitò i cinesi a formulare liberamente dellecritiche al governo, Wu si espose.
Ma per aver criticato il partito durante la Campagna dei Cento Fiori, anche se non formalmente incriminato, subì un processo nel 1960 e venne inviato nei laogai, i campi di «rieducazione attraverso il lavoro», con l’accusa di essere un controrivoluzionario. Costretto a estrarre carbone e costruire
strade, durante la prigionia venne trasferito in dodici differenti campi e scampò tre volte alla morte.
Narrò queste vicissitudini in Bitter Winds del 1994 (edizione italiana Controrivoluzionario. I miei anni nei gulag cinesi, Edizioni San Paolo). Nel libro, scritto assieme a Carolyn Wakeman, narra la storia della prigionia e della sopravvivenza, gli atti di coraggio e solidarietà dei detenuti e le giornate a battere i campi in cerca di rane e serpenti da mangiare. Rilasciato nel 1979, nel 1985 si trasferì negli Stati Uniti, dove divenne professore di Geologia a Berkeley. Ma per filmare i laogai e raccogliere informazioni tornò segretamente in Cina nel 1991, denunciando poi tutto al Congresso americano. Il secondo ritorno in patria, nel 1995, lo portò all’arresto e alla condanna a 15 anni di carcere per spionaggio. In quell’occasione lo salvò il passaporto americano.
Grazie agli «instancabili sforzi di politici, attivisti per i diritti umani e diplomatici», Wu fu rilasciato ed espulso dopo 66 giorni. Da allora, dagli Usa, Wu ha continuato a documentare tutte quelle che riteneva violazioni dei diritti umani in Cina, fra cui l’imposizione del figlio unico, le sterilizzazioni e gli aborti forzati e le migliaia di esecuzioni capitali. Nel 1992 fondò la Laogai Research Foundation, con lo scopo di promuovere l’informazione e denunciare la drammaticità dei laogai («Voglio vedere la parola laogai in ogni dizionario, in ogni lingua del mondo»). Il 15 marzo del 2006 Harry Wu aveva in programma la presentazione del suo libro Laogai. I gulag di Mao Zedong (L’ancora del Mediterraneo, 2006) presso il Tuma’s book bar di Roma, ma la presentazione del libro non poté svolgersi perché una cinquantina di attivisti dei Centri sociali, armati di mazze e bastoni, bloccarono l’ingresso. Nel 2008, al mensile Tempi, raccontò ancora l’esperienza nei gulag di Mao: «Ho passato i primi tre anni a piangere, mentre le guardie mi umiliavano e i compagni mi derubavano. Poi ho cominciato a rubare anch’io, a pensare soltanto a sopravvivere. Ci sono riuscito perché mi sono trasformato in una bestia». Nello stesso anno, Wu firmò la prefazione di Cina. Traffici di morte (Guerini, 2008), che documenta il commercio degli organi dei condannati a morte, ragion per cui tornò in Cina, sotto falso nome, per raccogliere le prove.