Negli Usa insegnava ai figli dei cowboys

Negli Usa insegnava ai figli dei cowboys
di LUCIANA CASTELLINA

di LUCIANA CASTELLINA

L’avevo incontrato l’ultima volta a una cena a Mosca nell’autunno del 2011, assieme ai compagni di viaggio, scrittori e giornalisti invitati dai colleghi russi, con i quali avevamo percorso la Siberia. Era più giovane di me e portava benissimo i suoi anni, non c’era ragione di pensare che quella sarebbe stata invece l’ultima occasione per chiacchierare assieme: Evgenij Evtushenko è scomparso il 1° aprile scorso, a Tulsa (Oklahoma), nella cui Università teneva dei corsi. La preferiva alle tante altre in cui aveva insegnato, perché – diceva – era «frequentata dai figli dei cowboys, non da «fghetti urbani». Ho detto «chiacchierare», per sottolineare che si trattò di un rapporto amichevole, perché l’avevo conosciuto tantissimi anni fa, quando, pur già popolarissimo in patria, era ancora ben lungi dal diventare il personaggio internazionale che è poi diventato. Era il 1961, in piena epoca krusceviana, quando spazi di libertà si erano aperti ed era lecito sperare che l’Unione Sovietica avrebbe potuto essere riformata. Ero a Mosca da un po’ di mesi per lavoro e la sera ci si incontrava nei padiglioni degli studenti dell’università Lomonosov dove lui, assieme a Andrej Voznesenski e ad altri poeti, veniva a recitare i suoi versi ai giovani che, rapiti, si affollavano per ascoltarlo. E poi si discuteva del mondo, tutti assieme, per nottate intere. Ricordo che una sera andammo anche con un gruppo fno alla Piazza Rossa coperta di neve dove, per sfida verso la polizia, lui scrisse sulla coltre bianca «Viva Nuova Generazione». Che era il nome del poco ortodosso settimanale della Gioventù comunista italiana che io dirigevo, ma stava lì anche per inneggiare alla nuova leva di ragazzi sovietici che segnò il risveglio democratico in quegli anni, poi lugubremente chiuso dalla «gelata» brezneviana. Di quella stagione Evtuschenko è stato il leader, le sue poesie diventarono canzoni, si cimentò col teatro e col cinema, in qualità di attore e di regista. Con le autorità ebbe sempre un rapporto che i suoi critici giudicarono ambiguo, «criticava il regime solo quel tanto che questo poteva sopportare» hanno detto di lui; e ad attaccarlo ci fu persino Brodskij, sebbene nel 1965 Evgenij fosse stato fra coloro che si erano battuti in suo favore (una posizione critica esplicita e forte che assunse del resto anche per l’invasione di Praga nel 1968). Credo si sia trattato di attacchi ingiusti, la sua non era ambiguità ma il tentativo, forse illusorio, di poter continuare ad operare nel suo paese e non finire in uno sterile esilio. Era comunque un personaggio stravagante, così come sono tanti di coloro che come lui sono nati in Siberia, tutti fgli di incroci etnici complessi, tutti discendenti di esiliati, lui per via di un bisnonno che aveva guidato una rivolta contadina contro lo zar. Già nel 1957 lo avevano espulso dall’Associazione degli scrittori sovietici dove era entrato giovanissimo: per «individualismo», venne scritto nella sentenza. Un’ accusa certamente appropriata, ma che in quell’epoca sovietica conteneva anche qualche pregio. Di Evgenij Evtushenko si ricorderà sempre la sua opera più bella, e più politicamente importante e coraggiosa: Babij Yar, in cui, prendendo spunto dal massacro di ebrei compiuto dai nazisti a Kiev, si ricorda anche l’antisemitismo russo e sovietico. Il grandissimo musicista Šostakoviþ, che spesso ha musicato versi del poeta, disse una volta: «Ogni mattina invece delle preghiere recito due poemi di Evtuschenko».

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